Beyond the darkness 🌟

 








Capitolo uno




Londra, marzo 1918


Dopo aver girovagato senza meta lungo Regent Street, mi ero seduto sugli scalini ai piedi della fontana di Piccadilly Circus. Dall'alto Anteros aveva appena scagliato la propria freccia e sembrava prendersi gioco di me dal momento che non ero io il bersaglio prescelto. Il dio greco dell'amore corrisposto, dell'amore vendicato quando viene tradito, si stagliava alto nel cielo grigio di quel gelido pomeriggio.
La piazza di solito affollata era da giorni semideserta. In città erano rimasti ormai solo vecchi, donne e bambini. Mi rividi anch'io bambino correre tra quei palazzi, quando riuscivo a scappare da casa, eludendo la sorveglianza dei domestici del Duca. Ma le mie fughe erano quasi sempre di breve durata e quando tornavo ad attendermi trovavo sempre un paio di sonori ceffoni, unico momento in cui Sua Grazia mi degnava di un po’ di attenzione.
Quando non c'era il Duca, ci pensava la Duchessa a rendere il mio rientro memorabile, rinchiudendomi per ore in qualche sgabuzzino, al buio, da solo. Si illudeva che in questo modo avrei rinunciato pian piano a comportarmi come un “animale selvatico”, così amava definirmi. I suoi metodi tuttavia non ottennero mai alcun risultato, io continuavo a scappare fino a quando il Duca non si decise, per la buona pace della famiglia, a spedirmi in collegio. La Royal St. Paul School, il più prestigioso istituto di istruzione di tutta l’Inghilterra non poteva rifiutare il primogenito, l'erede assoluto del patrimonio dei Granchester, nonché del titolo di Duca! Anche perché Sua Grazia, Sir Richard Arthur Granchester, VII Duca di W***, non mancava di destinare alla scuola cospicue donazioni che andavano a far scomparire come per magia le ripetute infrazioni alle regole messe in atto dal figlio.
Da quando ero a Londra, ovvero da circa due mesi, non avevo ancora trovato il coraggio neanche di passare davanti a quell'edificio che aveva visto il peggio ed il meglio di me, pugni e lacrime ma anche batticuori e risate. In quel momento alzai di nuovo lo sguardo verso il dio alato che in equilibrio su una gamba sembrava volermi suggerire quanto fosse difficile entrare nel cuore delle persone e farvi divampare la calda fiamma dell'amore. Eppure a me era bastato un attimo, un paio di occhi verdi nella nebbia che mi avevano trapassato il petto, incendiando il mio cuore. Chissà dov’era adesso!
Iniziavo a sentire freddo così mi alzai per tornare in teatro, ma una piccola voce alle mie spalle mi fermò.
- Ciao – disse.
Mi voltai e pensai per un attimo di avere le allucinazioni: davanti a me c’era un bambino, di circa 5 o 6 anni, con i capelli scuri e gli occhi di un blu profondo, molto simili ai miei.
- Ciao – risposi, facendo svanire l’incantesimo.
- Io mi chiamo Samuel e tu chi sei?
- Io sono Terence, piacere di conoscerti Samuel.
Il bambino rimase per qualche istante in silenzio, squadrandomi da capo a piedi. Sembrava riflettere su qualcosa e con gli occhi stretti tentava di mettere a fuoco cosa non andasse in me. Alzò un po’ il mento guardandomi storto e poi mi chiese:
- Tu non sei un soldato?
- No.
- E cosa sei allora?
- Un attore.
Sembrò alquanto stupito dalla mia risposta e continuò a guardarmi sospettoso, poi diresse gli occhi intorno e col dito indicò un edificio, il Criterion Theatre che si affacciava proprio sulla piazza. Confermai che la sua intuizione era giusta e lui mi sorrise.
- Ci sei mai stato a teatro Samuel?
- No… ma tu che fai lì dentro?
- Io faccio Amleto.
- E chi sarebbe questo Amleto?
- Amleto è un principe che finge di essere pazzo per scoprire chi ha ucciso suo padre.
A queste mie parole lo vidi diventare improvvisamente serio e abbassando lo sguardo lo sentii borbottare qualcosa:
- Il mio papà tornerà presto invece!
- Dov’è il tuo papà?
- In Francia, in un posto che si chiama Somme[1].
Un brivido mi percorse la schiena. Lo scontro tra francesi e tedeschi lungo il fronte occidentale era stato drammatico e proprio a Somme si erano registrate le perdite maggiori.
- Se tu lo aspetti tornerà di sicuro! Per questo è meglio che ora vai a casa, dove abiti?
- Di là – rispose indicando alla sua destra.
- Vuoi che ti accompagno?
- No, vado da solo… ciao.
Detto questo corse via.
Nei giorni seguenti tornai spesso a Piccadilly, ma non lo vidi più. Poi una sera, uscendo da teatro, me lo trovai davanti. Mi salutò e con la sua solita aria indagatrice mi chiese se fossi un bravo attore. Gli risposi che sì, ero abbastanza bravo.
- Potresti venire a recitare a casa mia?
- A casa tua? – domandai un po’ stupito da quella strana richiesta.
- Sì. Dove abito io ci sono tanti altri bambini come me e penso che potrebbero divertirsi un po’.
- Hai molti fratelli?
- No, non sono miei fratelli… sono bambini senza i genitori ed io sto con loro, ma solo fino a quando il mio papà non torna.
- E la tua mamma dov’è?
Vedendogli alzare l’indice verso il cielo mi pentii amaramente di averglielo chiesto e senza dire altro cercai di farmi perdonare offrendogli della cioccolata.
- Allora vieni? – mi chiese con tutta la bocca sporca.
- Devo chiederlo prima al mio capo e se lui…
- D’accordo… allora domani torno qui e mi dai una risposta ok? Ciao Amleto! – mi interruppe allontanandosi di corsa.
 
 
*******
 
- Ragazzi purtroppo la nostra tournèe si chiude qui.
- Ma come Robert, avevamo un programma molto lungo, dovevamo restare a Londra almeno fino a maggio!
- Lo so bene David ma le ultime restrizioni emanate dal governo non ci permetterebbero di lavorare con continuità, sarebbe inutile restare. Molti teatri sono stati chiusi e l’epidemia di influenza che sta dilagando rende tutto ancora più difficile. Dispiace anche a me, ma dobbiamo rientrare a New York e anche questo non sarà facile. Dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, l’Oceano Atlantico è diventato campo di battaglia. I sommergibili tedeschi ormai attaccano persino le navi passeggeri, dovremo fare molta attenzione ed informarci su quale sia la rotta migliore al momento.
Nella stanza cadde il silenzio. Dopo il grande successo ottenuto con l’Amleto a Broadway, dall’Europa erano arrivate molte richieste da parte di tutti i più importanti teatri. L’Inghilterra era stata la nostra prima tappa di una tournée che prevedeva anche Francia e Italia. Il dilungarsi degli eventi bellici aveva fatto saltare i nostri programmi, ma non volevamo rinunciare del tutto e così avevamo scelto la patria di Shakespeare per una decina di rappresentazioni che in due mesi si erano ridotte a due.
D’un tratto mi venne in mente Samuel, non potevo deludere il mio piccolo amico, uno delle tante vittime di questa guerra assurda.
- E se invece restassimo Robert? – la mia voce risuonò stentorea come se fossi stato sul palcoscenico. Tutti si voltarono verso di me con l’aria sbalordita.
- Ma che dici Terence, a cosa servirebbe, te l’ho già detto… non possiamo lavorare!
- Ho capito… però… potremmo comunque recitare, fare dei piccoli spettacoli di beneficenza.
- Beneficenza? Stai parlando sul serio?
- Robert ci sono molti luoghi che in questo momento avrebbero bisogno di ritrovare un po’ di bellezza in mezzo a tutto questo orrore. Qual è il compito dell’arte se non questo? Non possiamo andare via proprio adesso, gli ospedali sono colmi di feriti e non solo nel fisico ma anche nell’anima. Ci sono istituti pieni di orfani, bambini che vivono pensando di non avere un futuro, senza la speranza di un domani migliore. Proviamoci almeno!
- Credo che Terence abbia pienamente ragione!
- Andiamo Karen non ti ci mettere anche tu! Siamo venuti qui per portare a tutti l’Amleto della Compagnia Stratford, il più grande spettacolo degli ultimi dieci anni, non certo per andare in giro come uno di quei miseri teatrini itineranti. Abbiamo una dignità da difendere!
- Il teatro è per tutti o per nessuno! – replicai e i miei colleghi applaudirono, d’accordo con me. Hathaway non poté far altro a quel punto se non acconsentire alla mia richiesta.
- Hai già qualcosa in mente vero?
- Può darsi!
- Non abbiamo nessun copione qui, a parte l’Amleto, che cosa ci inventiamo?
- Andiamo Robert, sono sicuro che saresti capace di citare tutta l’opera del Bardo a memoria! Non è così?
- Mmmm… dovremo fare qualcosa di leggero, una commedia…
- Ok, faremo la riduzione di una commedia… che ne diresti di… Le allegre comari di Windsor?
Robert sorrise scuotendo leggermente il capo, poi mi guardò con uno sguardo di approvazione, prese un taccuino ed iniziò a buttare giù qualche dialogo.
- Ad assegnare le parti ci pensi tu Terence!
- D’accordo, ritieniti scritturato Robert!
 
Quella sera, sdraiato sul letto della camera d’albergo dove la compagnia alloggiava, mi sentivo stranamente sollevato non sapendo tuttavia da che cosa. La scelta di restare a Londra e di mettere la mia arte a disposizione di chiunque ne avesse bisogno, mi procurava una sensazione di libertà nuova che da tempo non provavo più. Forse perché New York, nonostante il grande successo di cui mi aveva omaggiato, era legata a ricordi ancora troppo dolorosi che mi attanagliavano l’anima. A Londra invece le immagini di un tenero amore spesso accompagnavano le mie notti e nei sogni tutto tornava ad essere reale. Anche se al mattino le mie illusioni svanivano, perdute in un tempo lontano, la dolcezza di quei momenti mi accompagnava anche durante il giorno. La sentivo così vicina che quasi, camminando per strada, potevo credere di incontrarla dietro il prossimo angolo.
Pochi giorni dopo, avendo individuato alcuni istituti di assistenza ai reduci di guerra e all’infanzia, iniziammo il nostro giro di spettacoli. Inizialmente eravamo accolti con riluttanza se non addirittura fastidio, non tutti sembravano gradire la nostra presenza allegra in ambienti in cui l’unico pensiero era spesso quello di dimenticarsi di esistere. Come temevo non erano solo le ferite del corpo a provocare dolore, erano anche i mostri che ancora si agitavano nella mente di chi aveva attraversato l’inferno e aveva visto molti compagni non tornare indietro.
Pian piano però si sparse in città la voce che un gruppo di attori un po’ “pazzi” era disposto a recitare senza ricevere alcun compenso ovunque venisse chiamato e tra loro si diceva ci fosse uno dei più giovani protagonisti della scena teatrale degli ultimi anni: Terence Graham.
Nessuno ci credeva davvero fino a quando non mi vedevano arrivare direttamente in quegli stanzoni enormi, affollati di uomini dallo sguardo spento che non avrei mai più dimenticato. In quel momento il mio unico desiderio ero quello di poter regalare loro un po’ di sollievo e magari, con molto ottimismo, una piccola nuova speranza.
Mia madre mi aveva scritto. Aveva saputo dell’annullamento di tutti gli spettacoli ed era ansiosa che io facessi ritorno a New York. Le risposi spiegandole la situazione, sicuro che da attrice animata da una sacra passione verso il proprio lavoro, mi avrebbe capito. Le chiesi infine un grande favore: assicurarsi che a Susanna non mancasse niente. Prima di partire per la tournée, avevo provveduto ad acquistare una casa più grande per lei e la signora Marlowe, preoccupandomi inoltre che avesse sempre l’assistenza medica necessaria. La sua salute infatti non era del tutto stabile e il suo fisico era molto provato dalle cure costanti cui era costretta a sottoporsi. 

 

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[1] La battaglia delle Somme fu un’imponente serie di offensive lanciate dagli anglo-francesi sul fronte occidentale della prima guerra mondiale a partire dal 1° luglio 1916, nel tentativo di sfondare le linee tedesche nel settore lungo circa sessanta chilometri tra Lassigny ed Hébuterne, settore tagliato in due dal fiume Somme, nella Francia settentrionale. In totale ci furono più di 600.000 tra morti e dispersi.


Capitolo due




Londra, aprile 1918

Era una mattina di inizio aprile, il sole cominciava a riscaldare i primi narcisi che ornavano i bordi delle strade. David ed io ci eravamo fermati in un caffè per fare colazione, quando mi accorsi che guardava insistentemente fuori dalla finestra che si trovava alle mie spalle.
- È molto carina? – gli chiesi, pensando che stesse osservando una ragazza.
- Chi?
- La bellezza che stai ammirando dietro di me.
- Ah no… non si tratta di una ragazza.
Lo guardai perplesso e lui mi disse che c’era un bambino che faceva avanti e indietro lungo il marciapiede da una decina di minuti senza staccare gli occhi da noi. Mi voltai di scatto.
- Ma quello è Samuel, l’ho conosciuto qualche settimana fa. Vieni con me.
Uscimmo dal locale e il piccolo si fermò fissandomi con l’aria imbronciata.
- Ciao Samuel.
- Si può sapere dov’eri finito? – mi chiese fulminandomi con i suoi incredibili occhi blu – Mi devi una risposta, te lo sei dimenticato?
- No no, non me lo sono dimenticato… è che siamo stati molto in giro ultimamente e…
- Allora, vieni o no?
- Certo che vengo, anzi veniamo… giusto David?
- Scusami Terence, dov’è che dovremmo andare?
- A casa mia… a fare uno spettacolo! – rispose Samuel anticipandomi.
David mi guardò con aria interrogativa, così lo presi da parte e in poche parole gli spiegai la situazione. Lui protestò un po’ sostenendo che non facevamo spettacoli per bambini e che Hathaway avrebbe sicuramente disapprovato. Cercai di convincerlo dicendo che non si sarebbe trattato di un vero e proprio spettacolo, ma di qualcosa che poteva far divertire i bambini di un orfanotrofio, magari la semplice lettura di una favola. Alla fine acconsentì ad accompagnarmi almeno per vedere se l’ambiente fosse effettivamente un orfanotrofio, in fondo mi stavo fidando di un bambino di cui non sapevo niente e che girovagava da solo per la città.
- Come possiamo essere sicuri che stia dicendo la verità? Potrebbe essere anche un piccolo ladruncolo mandato in giro per adescare qualche pollo da spennare.
- Andiamo David sii serio, è solo un bambino!
Tornammo da Samuel che aspettava con ansia una risposta. Gli presentai David e lui gli chiese immediatamente se accettava il suo invito.
- Potresti dirmi dove si trova questo posto?
Il piccolo al solito indicò con il dito la direzione da prendere.
- E come si chiama? - insisté l’attore non ancora del tutto convinto.
- Pony’s Hill – rispose fiero, alzando il mento.
- Come hai detto? – fui io stavolta a chiedere perché credevo di non aver capito bene.
Samuel ripeté scandendo ogni singola lettera.
- Sei sicuro?
- Certo che sono sicuro, è casa mia! – ribatté seccato – Possiamo andare ora?
- Sì… andiamo!
- Ma Terence ci aspettano in teatro, magari un’altra volta.
- È molto lontano da qui?
- No, è vicino. Seguitemi!
- E dai David, solo cinque minuti.
- A volte mi sembri fuori di testa! – esclamò mentre entrambi camminavamo a passo svelto dietro ad un bambino che correva felice verso Pony’s Hill.
In pochi minuti arrivammo davanti l’orfanotrofio. Era un piccolo edificio piuttosto scalcinato, incastrato tra due palazzi molto alti. Dall’esterno si udiva un brusio sommesso di voci infantili alternate a richiami severi pronunciati da una donna.
Samuel si fermò davanti al cancello e poi voltandosi si allungò verso di me per essere preso in braccio. Lo tirai su un po’ sorpreso e lui mi confidò all’orecchio che di sicuro lo avrebbero sgridato perché era uscito senza permesso, ma presentandosi con me sperava di passarla liscia.
- Ehi Amleto… ti batte forte il cuore! – esclamò dopo aver poggiato la sua manina sul mio petto.
- È per la corsa che mi hai fatto fare… - risposi tentando di nascondere l’emozione che il nome di quel luogo mi provocava.
Sorrisi di me stesso pensando che di sicuro si trattava di una coincidenza. Che cosa poteva mai avere a che fare quell’orfanotrofio con l’altro che si trovava oltreoceano.
Entrammo nel cortile e una donna di mezza età ci venne incontro con aria piuttosto spaventata.
- Samuel ma dov’eri finito? Quante volte ti ho detto che non devi allontanarti da solo, un giorno o l’altro mi farai prendere un colpo! – prima rimproverò il bambino, poi si rivolse a noi ringraziandoci per averlo riportato indietro.
- Ma sono stato io a portare loro! – protestò Samuel.
- Samuel non dire bugie o il tuo naso si allungherà a dismisura!
- È la verità signora, è stato lui a chiederci di venire qui.
- E per quale motivo ti sei messo ad importunare i signori?
Samuel, sempre in braccio a me, raccontò di come ci eravamo conosciuti e del fatto che fossi un attore. A quel punto la donna mi guardò meglio, scrutandomi da capo a piedi e finalmente ebbe come un’illuminazione.
- Santo cielo, ma lei è quell’attore famoso che…
- Si lui è Amleto! – sentenziò il bimbo.
- Mi chiami semplicemente Terence e lui è David.
La signora si scusò per non essersi nemmeno presentata e disse di chiamarsi Dolly, dopodiché ci invitò ad entrare per offrirci del tè e discutere in merito a ciò che avevamo intenzione di fare.
Accettammo e mentre poggiavo Samuel a terra lui bisbigliò che Miss Dolly non gli piaceva molto, la sua preferita era un’altra, ma oggi non c’era, me l’avrebbe presentata la prossima volta. La signora che ci aveva accolto ci spiegò infatti che mandava avanti l’istituto insieme ad altre due persone che in quel momento non erano presenti, ma era sicura che anche loro avrebbero accettato più che volentieri la nostra proposta di trascorrere qualche ora insieme a questi piccoli sfortunati, intrattenendoli con la lettura di qualche favola o, se fosse stato possibile, la messa in scena di un piccolo spettacolo. Miss Dolly ci mostrò la struttura costituita da un dormitorio, una cucina, una grande stanza per la distribuzione dei pasti e un’altra adibita a spazio ricreativo che avremmo potuto utilizzare fin quando la temperatura non permettesse di stare all’aria aperta, nel giardino sul retro.
Ci accordammo per tornare a far visita ai bambini un paio di giorni dopo. Samuel ci salutò molto soddisfatto sorridendomi e strizzandomi l’occhio in segno d’intesa.
 
*******
 
Non volevo pensarci, ma la mia mente, qualsiasi cosa facessi, finiva sempre a Pony’s Hill. Quando c’ero stato la prima volta avevo cercato ovunque tracce di lei, senza trovare niente che potesse farmi pensare che fosse lì. Eppure quel nome…
Con David avevamo pensato di proporre una sorta di fiaba musicale: nella stanza per la ricreazione avevo notato la presenza di un pianoforte. Miss Dolly mi aveva detto che lo strumento era stato donato all’istituto da un benefattore ma era piuttosto malandato anche perché non lo suonava mai nessuno. Provando qualche nota in effetti capii subito che non era perfetto ma avrei trovato il modo di farlo funzionare.
- Terence posso chiederti una cosa?
- Dimmi pure David.
- Ho l’impressione che quel posto significhi molto per te, ma non riesco assolutamente a capirne il motivo.
- Il fatto è che non ho avuto un’infanzia semplice e… mi fa piacere poter aiutare dei bambini in difficoltà.
- Perdonami ma… credere che tu, provenendo da una famiglia nobile, non sia stato un bambino felice, mi risulta difficile.
Era un argomento di cui non parlavo volentieri e lo feci capire chiaramente al mio collega che non osò chiedere altro. In effetti, ancora prima di conoscere il nome dell’orfanotrofio, con Samuel c’era stata subito un’intesa particolare, come se in lui trovassi qualcosa di familiare, forse per i suoi occhi intensamente blu simili ai miei o per quella sorta di sfacciataggine, di voglia di andare oltre le regole… caratteristiche in cui mi rivedevo molto.
Come stabilito ci recammo all’istituto due giorni dopo, nel primo pomeriggio. Miss Dolly ci accolse con gioia e ci condusse nella stanza dove aveva riunito i bambini, circa una quindicina. Ci disse che aveva da fare e ci lasciò da soli in mezzo ad un vociare acuto di piccole pesti che sembravano non fare assolutamente caso a noi.
- Buona fortuna! – aggiunse la donna prima di uscire e chiudere la porta.
David ed io ci guardammo perplessi. Ero sicuro che in quel momento mi stesse odiando. Dovevo inventarmi qualcosa al più presto, pensai. Così andai al pianoforte ed iniziai a suonare una melodia molto tranquilla, dai toni morbidi che nessuno parve notare. Poi improvvisamente inserii delle note acute, pestando i tasti con forza. Immediatamente ci fu silenzio. I bambini iniziarono a guardarmi e qualcuno incuriosito si avvicinò. Ci presentammo ed iniziammo a conoscere il nostro giovane pubblico. D’un tratto fece irruzione nella stanza il mio piccolo amico. Dopo essermi salito sulle ginocchia mi spiegò che era arrivato tardi perché Miss Dolly lo aveva punito.
- Sei scappato di nuovo?
- Solo per fare un giretto qui intorno!
- Mi ricordi molto qualcuno! – esclamai scoppiando a ridere.
- Scommetto che anche tu scappavi.
- A volte lo fa ancora e nessuno sa che fine abbia fatto! – rivelò David.
- Davvero? – chiesero in coro i bambini.
- Sì, ma non ditelo a Miss Dolly!
Le nostre risate vennero interrotte improvvisamente dal fragore di un tuono e di lì a poco cominciò a piovere molto forte. Un susseguirsi di fulmini e scrosci d’acqua fece saltare la corrente e restammo al buio. Qualche bambino più piccolo iniziò a piagnucolare spaventato, Samuel cercò di tranquillizzarlo dicendo che sarebbe andato a prendere delle candele. Un attimo dopo si udì sbattere il portone d’ingresso e lui subito esclamò – È arrivata!
Una voce femminile ci raggiunse attraverso il corridoio che dall’ingresso portava alla stanza dove mi trovavo. Si stava lamentando della pioggia che l’aveva colta di sorpresa e si dava della sciocca perché come sempre era uscita dimenticando l’ombrello. A questa voce si sovrappose quella di Miss Dolly.
- Benedetta ragazza, sempre a pensare prima agli altri e mai a te stessa! Sei tutta bagnata e qui è appena saltata la corrente.
- Ma i bambini dove sono?
- Di là, nella stanza della ricreazione.
- Da soli?
- No, ci sono due cari ragazzi con loro.
- Come… chi?
- Andiamo a portar loro queste candele, così te li presento.
Appena Samuel vide la luce della candela avvicinarsi lungo il corridoio, scappò via nel buio per andarle incontro.
Miss Dolly si affacciò sulla porta e si scusò per il contrattempo.
- Non potevo prevedere che sarebbe saltata la corrente. Temo che per oggi dovrete interrompere qui il vostro spettacolo.
- Non si preoccupi, torneremo un altro giorno – la rassicurò David.
Samuel entrò nella stanza e notai che stringeva la mano di una ragazza di cui non vedevo bene il viso perché troppo distante e scarsamente illuminato dalla candela che portava nell’altra. Mi voltai di spalle per chiudere il pianoforte e in quell’istante tornò la luce.
- Oh… sia lodato il cielo! – fu l’esclamazione di Miss Dolly accompagnata dal tonfo di un oggetto metallico evidentemente caduto a terra.
Mi girai per capire cosa fosse successo e vidi Samuel accovacciato raccogliere un portacandele dal pavimento, poi il mio sguardo proseguì verso l’alto. La ragazza aveva portato le mani al viso, per questo aveva lasciato cadere la candela. Aveva coperto il naso e le labbra, ma gli occhi, gli occhi no. Mi alzai in piedi e restai a bocca aperta, immobile, non so per quanto, forse fino a quando Samuel non la prese di nuovo per mano, trascinandola davanti a me.
- È lei la mia preferita – mormorò il bambino evidentemente con l’intento di non farsi sentire da Miss Dolly – Si chiama Candice, ma io la chiamo Candy, anche tu puoi chiamarla Candy se vuoi!
- Ciao… Candy – a stento riuscii a pronunciare queste due parole, mentre la guardavo incredulo e lei faceva lo stesso.
- Ciao…
- Si chiama Terence, ma io lo chiamo Amleto! È da tanto che volevo fartelo conoscere ma tu non sei più venuta.
- Sono stata molto impegnata in ospedale, perdonami Samuel.
- Terence forse è meglio andare. Ha smesso di piovere così evitiamo di bagnarci – suggerì David.
Intanto Miss Dolly si era avvicinata per spiegare a Candy il motivo della nostra presenza e quando le disse che saremo tornati mi sembrò di vederla sorridere.
Non ci dicemmo altro quella sera, non ne avevamo la forza, credo.



Capitolo tre





Londra, aprile 1918

 

 “Terence è a Londra”… riuscivo a pensare solo a questo dopo averlo incontrato all’orfanotrofio. Da quando ci eravamo separati due anni prima, non lo avevo più rivisto e avevo fatto di tutto per dimenticarlo. Dopo un periodo trascorso alla Casa di Pony, avevo cercato di andare avanti ricominciando a lavorare alla Clinica Felice del dottor Martin. La mia vita sembrava proseguire tranquilla, poi … l’entrata in guerra degli Stati Uniti, la morte di Stear … il mio dolore sembrava non trovare mai fine. Pensai a quel punto che fosse meglio allontanarmi da tutto e da tutti, così mi offrii per partire come infermiera volontaria in Europa. Fino all’ultimo non conobbi la mia destinazione e quando appresi che si trattava di Londra ebbi il timore che quella città non mi avrebbe aiutato. E adesso, ecco che il mio presentimento si era avverato!

Mi chiedevo perché il destino ancora una volta si accanisse in questo modo contro di me. Rivederlo aveva cancellato di colpo tutto il tempo trascorso e tutta la fatica impiegata per superare la nostra separazione, ma sapevo che lui non era più mio.

Quel giorno ero quasi tentata di non andare, per evitare di incontrarlo anche se non ero sicura che lui ci fosse. Poi pensai che i bambini mi aspettavano, soprattutto Samuel che si era molto affezionato a me e guarda caso anche a Terence. Quando arrivai, appena varcato il portone d’ingresso, una dolce melodia mi raggiunse e capii subito chi la stesse suonando. Esitai ad entrare.

- Candy finalmente sei arrivata, potresti darmi una mano in cucina? Catherine non c’è e non so come fare da sola.

- Certo Miss Dolly, andiamo.

Mi chiusi nella cucina sperando di non udire la musica che proveniva dalla stanza in fondo al corridoio. Tuttavia percepivo chiaramente il chiasso provocato dai bambini che sembravano divertirsi molto. Le loro risate allegre mi scaldavano il cuore, dopo essere stata in ospedale e aver visto ancora una volta cosa stesse provocando la guerra alla nostra generazione di giovani.

- Senti come si divertono! Quel ragazzo li ha proprio conquistati … non avrei mai creduto che un attore del suo livello si prestasse ad intrattenere un pubblico di orfanelli.

- Terence è sempre stato molto generoso … - pensai a voce alta, senza accorgermene.

- Vi conoscete?

- Come?

- Hai detto che è sempre stato molto generoso …

- Beh … eravamo compagni di scuola, a Londra.

- E ora vi siete incontrati di nuovo proprio qui, che coincidenza!

- Già …

Miss Dolly mi fissò per un istante, poi mi disse che la cena era quasi pronta e che sarebbe stato meglio far preparare i bambini per la tavola.

- Perché non vai a chiamarli?

Percorsi il corridoio lentamente. In quel momento c’era silenzio e quando entrai nella stanza vidi tutti i bambini seduti in semicerchio davanti a Terence che stava al pianoforte. Nessuno si era accorto di me, nemmeno lui. Mi fermai sulla porta perché lo “spettacolo” non era ancora terminato e lo osservai. Portava ancora i capelli un po’ lunghi e, anche se i tratti del viso si erano fatti più decisi, la dolcezza del suo sorriso non era cambiata affatto. Stava narrando la storia di un bambino alle prese con un lupo che, aiutato da altri animali, cercava di allontanarlo. Era arrivato al punto dello scontro finale. Indossava un maglione scuro di cui aveva arrotolato le maniche fino al gomito e, con una mano suonando i tasti nei toni più bassi simulava l’arrivo minaccioso del lupo, mentre agitava l’altra per indicare la paura dei piccoli animali che seguivano il bambino. D’un tratto si alzò in piedi e fu come se il lupo fosse improvvisamente piombato sul giovane pubblico che si spaventò, tirandosi un po’ indietro. Poi riprese a suonare una musica convulsa che terminò con la fuga del pericoloso animale. Tutti i bambini gridarono entusiasti per la vittoria, anche a loro sembrò di aver sconfitto un lupo!

Un applauso spontaneo uscì dalle mie mani, anch’io mi ero lasciata coinvolgere dalla bravura dell’artista che avevo di fronte, ma quando lui mi guardò vidi solo Terence e mi bloccai. Samuel mi venne incontro dicendomi che si era divertito molto a dar la caccia al lupo ed io risposi che si era meritato qualcosa di speciale per cena.

- Tutti a lavarsi le mani! – gridai cercando di richiamare l’attenzione dei bimbi che ancora stavano intorno al loro amico attore, chiedendogli quando sarebbe tornato.

Solo dopo aver ottenuto la promessa di rivederlo il giorno seguente, si decisero a lasciarlo in pace uscendo dalla stanza tutti in fila, guidati da Samuel.

- È un bambino molto intelligente! – esclamò Terence alle mie spalle.

Mi voltai e lui era proprio lì, vicino a me. Aveva indossato il cappotto e quindi stava per andarsene, pensai.

- È vero … e poi, nonostante sia rimasto solo, non si perde d’animo.

- So che ha perso la mamma da poco.

- Purtroppo sì, si è ammalata e non c’è stato niente da fare.

- Il padre era già al fronte quando è successo?

- Sì … Samuel mi ha detto che gli somigli.

- Lo ha detto anche a me – mormorò Terence sorridendo quasi imbarazzato.

Il nostro breve dialogo venne interrotto dal rumore dei bambini che correndo si dirigevano verso la sala da pranzo. Passarono come una mandria di puledri al galoppo, facendo ballare le tavole in legno del pavimento.

- Perché ti trovi a Londra? – mi chiese appena i bambini si furono allontanati.

- Sono un’infermiera volontaria, lavoro in ospedale. Sono partita cinque mesi fa, dopo la scomparsa di Stear.

- Ho saputo, mi è dispiaciuto molto. Era in gamba.

Annuii e restammo qualche istante in silenzio.

- E tu, sei in tournée, giusto?

- Sì … ma ora il programma è saltato, non riusciamo a lavorare.

- Dunque tornerete in America?

- Per il momento no, pare che attraversare l’oceano sia piuttosto pericoloso e poi … penso che il teatro possa portare un po’ di serenità a tutti coloro che ne hanno bisogno.

- È stata tua l’idea di fare degli spettacoli di beneficenza?

- Sì, ma devo dire che, a parte il direttore, i miei colleghi sono stati tutti d’accordo con me e quindi resteremo a Londra ancora per qualche settimana probabilmente.

Udii Miss Dolly chiamarmi per la cena.

- Devo andare.

- Anch’io… ciao Candy, a domani.

Nelle settimane che seguirono Terence tornò all’orfanotrofio molto spesso, quasi ogni giorno. A volte insieme a David, altre da solo. I bambini si intrattenevano volentieri con lui, aspettavano con ansia che arrivasse perché si inventava sempre qualcosa di nuovo. Quando li raggiungevo mi raccontavano un sacco di cose e vederli sorridere era il più bel regalo che potessi ricevere. Poi c’era lui. Ogni sera scambiavamo qualche parola, di solito su quello che avevamo fatto durante il giorno, su qualcosa di particolare accaduto in ospedale o a proposito dei bambini. Non parlavamo mai di… noi.

 

*******

 

Vedere Candy quasi ogni giorno era diventata una piacevole abitudine di cui non potevo fare a meno. Non volevo pensare a quei due anni trascorsi lontani, non volevo pensare a come e perché ci eravamo separati. Adesso eravamo lì insieme, potevo parlarle, aiutarla con i bambini di cui si prendeva cura mi sembrava normale. In un periodo in cui il mondo era stravolto dalla violenza e dalla follia della guerra, a me sembrava di aver trovato la pace. Cosa mi avrebbe riservato il futuro non potevo saperlo, mi illudevo di poter godere di questo presente, ma non sarei riuscito ancora per molto ad ignorare il nostro passato.

Una mattina, appena varcato il cancello, vidi Samuel venirmi incontro di corsa con Miss Dolly al seguito con l'aria decisamente arrabbiata.

- Che succede? - chiesi al bambino dopo averlo preso in braccio. 

- Glielo dico io cosa succede! Questo bambino è un piccolo diavolo e ha distrutto tutti i fiori del giardino!

- Non è vero! – protestò Samuel.

- Si invece piccola canaglia e adesso ti farò passare la voglia di dire bugie!

Guardai Samuel seriamente per capire se stesse mentendo. Lui cercò di giustificarsi dicendo che voleva solo raccogliere dei fiori per Candy.

- È la verità… volevo farne un mazzetto per darli a Candy quando arriverà, perché lei è sempre carina e gentile con me, non come questa qui!

- Ma sentilo… lo dia a me che ci penso io ad insegnargli l'educazione!

Samuel mi strinse più forte, nascondendo il viso tra i miei capelli.

- Miss Dolly credo che il bambino davvero non avesse cattive intenzioni. Posso vedere se qualcosa si è salvato e così diamo a Samuel la possibilità di rimediare. Che ne pensa?

- Penso che io ho molto da fare e non ho tempo da perdere… - bofonchiò la donna.

Detto questo Miss Dolly si allontanò mentre noi ci recammo sul retro per vedere cosa avesse combinato. Il giardino non molto grande aveva uno spazio libero al centro, circondato da alcuni alberelli ai piedi dei quali si stendevano delle aiuole. Samuel sembrava essersi concentrato in particolare su una dove erano fioriti splendidi narcisi dorati.

- Questi sono i fiori preferiti di Candy.

- E tu come lo sai?

- Me lo ha detto lei!

Un’onda di ricordi si impossessò di me, togliendomi il respiro. La St. Paul School, la collina dove ci incontravamo spesso, quel giorno era ricoperta di narcisi ed io me ne stavo sdraiato sull’erba in mezzo ai fiori. Candy arrivando di corsa non mi aveva visto ed era finita per inciampare nel mio piede e cadermi direttamente fra le braccia. Era diventata tutta rossa, dicendo che era a causa della corsa che aveva fatto, ma io sapevo che mentiva. Per la prima volta mi chiamò Terry. Ricordavo ancora perfettamente la sensazione di sentir pronunciare quel “Terry” da lei!

Scoprire adesso che quei fiori che erano stati complici spettatori della nascita del nostro amore erano i suoi preferiti, mi provocò la stessa sensazione di allora. Cercai di sistemare le piantine che Samuel aveva strappato e poi preparammo insieme un piccolo mazzo di fiori da dare a Candy.

Proprio in quel momento arrivò e ci raggiunse in giardino. Samuel le offrì i narcisi dicendole che l’avevo aiutato a raccoglierli. Mi guardò sorpresa e il suo imbarazzo mi fece capire che anche lei ricordava ogni cosa.

- Sei arrivata presto oggi!

- Non ti ricordi chi deve venire tra poco? Dobbiamo prepararci, su vai a lavarti queste mani sporche di terra.

Seguendo le indicazioni di Candy il bambino corse via.

- Che succede? – le chiesi.

- Uno dei nostri più importanti benefattori viene a farci visita, senza il suo aiuto sarebbe difficile se non impossibile mandare avanti questo posto.

- Di chi si tratta?

- Del colonnello Coventry, Duncan Coventry.

Era un nome che mi suonava familiare. I Duchi di Coventry avevano di sicuro frequentato Granchester Manor in passato, ma non mi sembrava che tra le due famiglie corresse buon sangue.

L’ufficiale arrivò a bordo di un’auto insieme ad altri tre militari, soldati semplici che iniziarono immediatamente a scaricare alcune casse, trasportandole all’interno. Mi trovavo nella stanza dove di solito radunavo i bambini, ma in quel momento ero da solo e da una finestra vidi Candy con Miss Dolly dare il benvenuto all’uomo. Il colonnello salutò garbatamente le due donne, indugiando con lo sguardo sul viso della più giovane. Quando Candy si incamminò verso il cancello d’ingresso, continuò a seguirla con gli occhi con un sorrisetto compiaciuto che non mi piacque per niente.

Entrarono nell’istituto e non li vidi più, ma avvicinandomi alla porta mi accorsi che riuscivo ad udire cosa stessero dicendo.

- Spero vivamente che i medicinali che abbiamo portato siano sufficienti, non è semplice reperirli in questo periodo.

- Lei è sempre così generoso Mr. Coventry!

- Sono felice quando so che a questi poveri orfanelli non manca niente … e lei, Miss Ardlay, ha bisogno di qualcosa? – le chiese l’ufficiale avvicinandosi un po’ troppo.

- Oh no, la ringrazio e non era necessario che si disturbasse la volta scorsa.

- Solo un piccolo omaggio, una ragazza così giovane lontana da casa, deve sentirsi molto sola.

- In realtà non mi sento mai sola, qui ho trovato molte persone care che mi vogliono bene.

- Spero di essere tra queste…

- Ma che razza di farabutto! – esclamai a mezza voce dietro la porta, anche se avrei voluto gridare.

Ma come si permetteva di fare certi discorsi a Candy! Mi prudevano le mani e fui sul punto di uscire fuori e prenderlo per il collo. Cercai di trattenermi solo perché lei mi aveva detto che l’aiuto del colonnello era fondamentale per mandare avanti l’istituto. Ma ero comunque deciso a conoscerlo di persona, sperando che la mia presenza lo facesse desistere dal corteggiare Candy così spudoratamente.

Uscii dalla stanza e Miss Dolly mi chiamò.

- Colonnello le presento un altro nostro “collaboratore” che da qualche settimana ci da una grossa mano con i bambini, mettendo a disposizione gratuitamente la propria arte. Si tratta di Terence Graham, avrà sicuramente sentito parlare di lui.

Il militare mi squadrò da capo a piedi con aria di superiorità poi si rivolse a me indicandomi come “l’attore”.

- Essere o non essere questo è il problema … giusto Graham? – mi chiese sghignazzando.

- Più o meno! – risposi glaciale.

- Sa io sono abituato ad altri palcoscenici, vede nelle trincee non si va molto per il sottile!

- Che ne direste di bere un tè? – ci interruppe Candy.

Ci spostammo in un piccolo salotto. Miss Dolly e il colonnello ci precedevano lungo il corridoio e Candy colse l’occasione per pregarmi di essere gentile con lui.

- Quel tipo non mi piace per niente!

- L’ho capito e credo che lo abbia capito anche lui! Ti prego, il suo aiuto è importante e tra poco se ne andrà.

Proprio in quel momento Coventry si voltò verso di noi che eravamo rimasti un po’ indietro, Candy lo raggiunse facendogli strada.

- E così lei sarebbe qui per dare una mano con i bambini, è corretto?

- Sì.

- Che strano, un attore del suo calibro che si dedica a far spettacoli per fanciulli! – esclamò compiaciuto sorridendo a Candy.

- Terence in realtà si trova in Inghilterra con la sua compagnia teatrale per una tournée, ma in questo momento molti teatri sono chiusi e così … - intervenne Candy.

- Così ha deciso di dedicarsi alla beneficenza – sottolineò Coventry con sarcasmo.

Candy mi lanciò uno sguardo ed io evitai di rispondere.

- Che cosa ne direbbe allora di mettere in scena uno spettacolo a Palazzo Coventry? È giusto che tutti possano godere della sua arte, non crede … Terence?

- Ne sarei onorato … Duncan!

- Perfetto! Allora le farò sapere quando sono disponibile, in questo periodo sono oberato dagli impegni!

- Immagino!

Il colonnello si alzò. Candy andò a chiamare i bambini che in fila lo salutarono in coro.

- Naturalmente aspetto anche lei a Palazzo, per assistere allo spettacolo – le disse, baciandole la mano prima di allontanarsi, senza darle la possibilità di rispondere.


Capitolo quattro




Londra, aprile 1918

Coventry Palace

 

Il palazzo appariva imponente ed austero nonostante fosse ampiamente illuminato e ricco di addobbi floreali. L’aria che respirai entrando mi sembrò talmente fredda da farmi rabbrividire.

- Candy ti senti bene? – mi chiese Grace preoccupata.

- Sì, certo.

Non volevo andare da sola, così avevo chiesto a Grace di accompagnarmi e lei si era dimostrata subito entusiasta. Era una ragazza inglese, originaria di Birmingham. Lavoravamo insieme in ospedale, ma non eravamo soltanto semplici colleghe. Quando ero arrivata a Londra come volontaria tra noi si era stabilito fin da subito un legame speciale: mi aveva ospitata in casa sua dove viveva con i genitori e Constance, la sorella più piccola. Non si poteva dire di certo che fossero una famiglia benestante: la madre era una sarta e il padre che per fortuna non era stato arruolato per un problema ad un braccio, lavorava all’ufficio postale. A Grace non capitava spesso dunque di partecipare a feste del genere, mentre io le avevo raccontato dei grandi ricevimenti che si tenevano a Villa Ardlay, a Chicago.

Nonostante fossi abituata ad occasioni come quella, in realtà ero proprio io la più agitata rispetto a Grace che non faceva altro che guardarsi intorno stupita ed elettrizzata allo stesso tempo.

- Oh mio dio Candy, guarda che meraviglia … i lampadari … quante luci avranno e quelle statue di marmo candido … credi che ci sarà un buffet dopo lo spettacolo? Se penso che tra poco vedremo recitare Terence Graham! Ti rendi conto, lo sai quanto è bravo e bello? Da svenire!

Ecco appunto: Terence! A Grace non avevo parlato di lui, le avevo solo raccontato che qualche volta era venuto all’orfanotrofio insieme ad un altro attore per far divertire i bambini. Non le avevo detto che lo conoscevo, ma temevo che adesso se ne sarebbe accorta da sola. Dopo tanto tempo avrei assistito di nuovo ad un suo spettacolo e probabilmente era questo ciò che più mi faceva innervosire. L’ultima volta era stata alla prima di Romeo e Giulietta e le sensazioni che mi provocava quel ricordo non erano facili da gestire. Anche se mi sforzavo di non pensarci, una sequenza interminabile di immagini mi attraversava la mente, facendomi accelerare il battito cardiaco e mozzandomi il respiro.

Il colonnello Coventry notò subito il nostro ingresso nel salone principale e ci venne incontro, salutandomi con aria fiera e compiaciuta come suo solito. Gli presentai Grace la quale lo scrutò seria in volto, ritirando velocemente la mano che lui aveva sfiorato con le labbra.

- Ma cosa vuole da te quello?

- Come?

- Non ti sei accorta come ti ha guardata?

- Il colonnello Coventry ci sta dando una mano con l’orfanotrofio, le sue donazioni …

- Le sue donazioni hanno un unico scopo, te lo dico io, e probabilmente anche questo invito!

- Che vuoi dire Grace?

- Andiamo Candy, lo sai cosa si dice sulla condotta degli ufficiali! E poi lui avrà il doppio dei tuoi anni …

- Appunto, figurati se può interessarsi a me!

- Infatti vorrà soltanto divertirsi, è questo che fanno i militari: si fermano in una città per un po’, illudono qualche bella ragazza solo per spassarsela e poi se ne vanno!

- Ti ringrazio per avermi messa in guardia Grace, ma non c’è alcun pericolo perché a me lui non piace!

- E pensi che questo lo possa fermare? Dammi retta Candy, stagli lontana!

- D’accordo ti prometto che gli starò lontana, ma poi ci sei tu con me quindi posso stare tranquilla!

Sul fondo del salone era stato allestito una sorta di palcoscenico che sembrava riprodurre un paesaggio nordico. Lunghe file di poltroncine in velluto rosso erano disposte in due ali perfettamente allineate. Grace ed io ci sedemmo nei posti che ci erano stati assegnati, nella prima fila. Pian piano anche le altre si riempirono di varie personalità, tra cui molti ufficiali. Solo il posto vicino al mio continuava a rimanere vuoto. Le luci vennero spente ed io diressi immediatamente lo sguardo verso il palco in attesa di vederlo. Dopo pochi istanti avvertii una presenza vicino a me, la poltroncina vuota era stata occupata dal colonnello. Mi voltai, lui mi sorrise e il modo in cui lo fece mi indusse a pensare che Grace potesse avere ragione, dovevo stargli lontana.

La tragedia di Shakespeare che la Compagnia Stratford aveva deciso di rappresentare quella sera riscosse un notevole successo. Il pubblico speciale che ebbe il privilegio di assistere a quello spettacolo esclusivo rimase del tutto rapito dalla vicenda del Principe di Danimarca. Tutti furono concordi nell’affermare che l’Amleto di Terence Graham era stupefacente e che le qualità interpretative del giovane attore erano assolutamente fuori dal comune.

In effetti la presenza scenica e la capacità di immergersi nel personaggio che Terence possedeva erano di una tale potenza che non si poteva fare a meno di restarne rapiti. Naturalmente su di me aveva un effetto molto particolare. Il mio principe di Danimarca si era improvvisamente trasferito in Scozia, era seduto vicino a me davanti ad un lago scintillante e declamava versi con la voce più dolce che io avessi mai udito. Solo alla fine dell’ultimo atto tornai a Londra e di fronte alla visione del principe ferito a morte, fui sul punto di alzarmi per andare in suo soccorso. Mi sentii afferrare per la mano, era Coventry che evidentemente aveva notato il mio turbamento. Un rullo di tamburi annunciò la morte di Amleto e l’ascesa al trono di Fortebraccio, dopodiché un lungo applauso ruppe l’incantesimo e mi fece tornare alla realtà.

- Le è piaciuto molto, vedo! – esclamò Coventry, avvicinandosi alla mia guancia tanto da poter sentire l’aroma del tabacco che il sigaro aveva lasciato nella sua bocca.

- Decisamente, non avevo mai visto niente di simile – risposi, mentre Terence e gli altri attori si inchinavano davanti a noi.

Proprio mentre Coventry mi si era avvicinato, notai uno scambio di sguardi non proprio amichevole tra lui e Terence. Decisi di alzarmi ed uscire a prendere un po’ d’aria dicendo a Grace che l’avrei raggiunta dopo pochi minuti nella sala del buffet.

La notte era tiepida, il cielo terso e pieno di stelle. Respirai profondamente il profumo delle rose che proveniva dal giardino sottostante. Pensai che anche le rose di Anthony fossero sul punto di sbocciare.

- È impossibile credere che qualcuno possa pensare a combattere sotto un cielo come questo!

- E a cosa si dovrebbe pensare invece?

- Ad amare!

Mi voltai seguendo la voce che aveva parlato alle mie spalle e lui era davanti a me, molto vicino. Sorpresa indietreggiai, ritrovandomi con i fianchi addossati alla balaustra della terrazza. Lui fece un altro passo, bloccandomi con le braccia.

- È una bella notte per amare, non crede anche lei Miss Ardlay?

- Io… non credo.

- Candy, sei qui?

- Mi perdoni colonnello, la mia amica mi sta cercando.

Appena Grace giunse in terrazza riuscii a divincolarmi e rientrai velocemente con lei nel salone. Mi chiese spiegazioni vedendomi agitata. Le risposi che non c’era alcun problema, lei evidentemente finse di crederci distratta in quel momento dall’ingresso degli attori che, tolti gli abiti di scena, si concedevano ai presenti. Riconobbi tra loro Robert Hathaway e Karen Kleiss che aveva interpretato Ofelia. Anche lei mi vide e venne a salutarmi, stupita nel trovarmi a Londra. Pensai che Terence non le avesse detto niente.

- Miss Kleiss è veramente un onore fare la sua conoscenza, ma se fosse possibile … - Grace esitò.

- Comprendo perfettamente mi creda, vogliono tutte lui! Vado a chiamarlo così potrà farle un autografo.

Karen tornò dopo pochi minuti, sottobraccio a Terence. La loro complicità era evidente, stavano scherzando su qualcosa e sorridevano. Lo sentii scambiare qualche battuta con Grace che tutta eccitata sembrava cinguettare invece che parlare. L’orchestra aveva attaccato un valzer e Karen ne approfittò per trascinare il primo attore al centro della sala. Continuai ad osservarli per un po’, come del resto stavano facendo tutti i presenti: Ofelia e Amleto non erano stati protagonisti solo sul palco ma apparivano molto affiatati anche una volta tolti gli abiti di scena.

- Sono veramente una coppia meravigliosa!

- Come … una coppia?

- Secondo te non stanno insieme?

- Non saprei Grace …

- Andiamo Candy, lei se lo sta mangiando con gli occhi! Penso che in questo momento sia la ragazza più invidiata della festa e forse anche di tutta l’Inghilterra!

Grace non poteva immaginare cosa provocassero in me le sue parole… mi sentivo confusa e piena di rabbia. Per fortuna mi disse che aveva bevuto un po’ troppo e che andava alla toilette per rinfrescarsi il viso, altrimenti si sarebbe accorta di come io fossi sul punto di scoppiare. Fu in quel momento che apparve di nuovo  Coventry dicendomi che voleva consegnarmi del denaro per l’orfanotrofio, ma non poteva farlo lì davanti a tutti e mi invitò a seguirlo. Gli risposi che stavo aspettando Grace, ma lui insisté assicurandomi che ci avremmo impiegato pochi minuti.

 

*******

 

- Dov’è Candy?

- Io non l’ho vista, prova a chiedere alla sua amica – rispose David indicandomi la ragazza che sembrava piuttosto inquieta.

- Miss Grace mi perdoni, Candy non è con lei?

- No, in realtà la stavo cercando anch’io. Non so dove sia ma temo di sapere con chi!

- Che intende dire?

- Il colonnello, quel Coventry, è tutta la sera che le ronza intorno… se fosse con lui devo trovarla assolutamente!

- Ci penso io, non si preoccupi!

Corsi via, non sapendo bene dove andare… il palazzo era enorme, pieno di stanze e corridoi semibui. D’un tratto mi sembrò di udire un grido provenire da una stanza non molto lontana da me. Le porte chiuse però erano molte e tutte uguali. La chiamai.

- Candy!

Seguì un altro grido, questa volta smorzato, come se qualcuno le avesse tappato la bocca, ma fu sufficiente a farmi individuare con certezza il luogo dal quale veniva.

Mi avventai sulla maniglia, ma era bloccata. Ero sicuro che Candy fosse lì dentro. Feci qualche passo indietro, poi presi la rincorsa e con tutta la forza che avevo riuscii ad aprirla. Impiegai un solo istante per riconoscere la divisa militare di Coventry che era voltato di schiena, addosso a Candy costretta tra lui e la parete. Con la mano sinistra afferrai il colletto della giacca, trascinandolo indietro e facendolo voltare; quando il suo viso fu alla mia altezza con la destra gli sferrai un pugno centrando il naso che iniziò immediatamente a sanguinare. Avrei continuato se non fosse sopraggiunto David che preoccupato mi aveva seguito. Fu lui a togliermelo dalle mani non senza difficoltà, mentre Grace si occupava di Candy visibilmente sconvolta.

- Che cosa le hai fatto, lurido bastardo! Che cosa? – continuavo a urlare verso l’ufficiale che tentava di tamponare il naso quasi certamente rotto.

Intervenne Candy assicurandomi che non era successo niente e pregandomi di calmarmi, mentre David sussurrò al mio orecchio che Coventry teneva molto probabilmente una pistola sotto l’uniforme e che era meglio andarsene da lì.

Ma io volevo essere sicuro che non ci avrebbe più riprovato, così mi avvicinai di nuovo a lui che sembrava essersi ripreso dopo il colpo ricevuto e mi fissava minaccioso.

- Non si azzardi più ad avvicinarsi a Candy o se ne pentirà!

- Come osa minacciarmi! Io credo invece che sarà lei a pentirsi amaramente di quello che ha appena fatto, può starne certo … Granchester!

- Andiamo via Terence … - suggerì ancora David, quasi trascinandomi fuori.

Tornammo nel salone, ma non avevo alcuna intenzione di restare alle festa e David era della mia stessa idea. Prima di andarmene però volevo accertarmi che Candy stesse bene ma non riuscivo a vederla.

- Forse se n’è andata – pensai.

Recuperati i soprabiti ci dirigemmo verso l’uscita del palazzo e sulla scala la vidi. Le chiesi se fosse tutto a posto, mi rispose di si ma guardandomi in un modo che non mi aspettavo. Sembrava arrabbiata con me. Perché?

- Avete bisogno di un passaggio?

- No! – esclamò decisa.

- Non è un problema, stiamo andando via anche noi e siamo solo in due …

- Ho detto di no! Insomma Terence vuoi smetterla!

- Di fare cosa?

- Di difendermi! Non siamo più alla St. Paul School ed io so cavarmela benissimo da sola. C’era bisogno di spaccargli la faccia! Adesso Coventry di sicuro smetterà di sovvenzionare l’orfanotrofio e a rimetterci saranno quei poveri bambini, c’hai pensato a questo? Non credo proprio!

Le sue parole mi gelarono il sangue e non osai ribattere. Non potei far altro che guardarla allontanarsi e salire su una carrozza insieme a Grace.


Capitolo cinque




Nei giorni che seguirono la festa a Palazzo Coventry, Terence non si fece più vedere all’orfanotrofio. All’inizio ne ero quasi felice e la cosa mi sembrò che mi facesse sentire più serena. Non sopportavo il modo in cui si era comportato, chi gli dava ancora il diritto di intromettersi nella mia vita! Era sempre stato un violento e non era cambiato affatto evidentemente.

I bambini però lo aspettavano, in particolare Samuel mi chiedeva spesso di lui e gli sembrava strano che non fosse più venuto.

- Si può sapere che cosa ti piace tanto di Terence?

- Lui mi ascolta e poi da grande anch’io voglio fare l’attore.

- Davvero? E come ti è venuta questa idea?

- Beh… gli attori famosi come lui sono pieni di ammiratrici… anch’io voglio tante ammiratrici!

- Ma Samuel!

Il bambino scoppiò in una fragorosa risata e corse via nel giardino. Le sue ultime parole mi rimbalzavano nella testa: “molte ammiratrici”! Mi sentii all’improvviso come se qualcosa mi avesse punto, balzai in piedi riassaporando la stessa sensazione che mi aveva colto quando lo avevo visto avvicinarsi insieme a Karen e dopo quando ballavano, sorridenti e bellissimi. Ero gelosa, tremendamente gelosa di lui! Ecco perché avevo rifiutato il suo invito ad accompagnarmi a casa e soprattutto lo avevo trattato così male, dicendogli che doveva smetterla di salvarmi perché i giorni della St. Paul School erano finiti ormai. Come avevo potuto?

Era dunque a causa mia che non era più venuto. Cosa potevo fare? Dovevo trovarlo e scusarmi… forse in teatro…

- Ciao David, Terence è qui?

- No, non c'è. 

- Sarebbe dovuto venire all'istituto ma non l'ho più visto e così…

- È rimasto in albergo infatti. 

- In albergo? Come mai, non sta bene? Non si sarà preso l'influenza?

- Sta bene ma…

- Ma?

- È in partenza.

- In partenza? Che significa? Deve tornare a New York?

- No...

- Allora… dove va?

- Senti Candy perché non lo chiedi direttamente a lui? 

- A lui? Ma che succede David?

- Niente ma… vai da lui, così ti spiegherà tutto.

Uscii dal teatro con un peso sul petto che aumentava man mano che mi avvicinavo all'albergo dove si trovava Terence. Iniziai a correre sempre più forte come se arrivare da lui prima possibile avesse potuto risolvere qualcosa, anche se non sapevo cosa. David aveva detto che era in partenza senza rivelarmi né il motivo né la destinazione. Perché? Mi sembrava di soffocare.

Arrivai davanti l'ingresso quasi senza fiato e mi precipitai alla reception per farlo chiamare. Mi dissero invece che potevo salire, la sua stanza si trovava al primo piano, la numero 38.

- Candy… che cosa ci fai qui? - mi disse serio in viso, aprendo la porta.

- Scusa il disturbo, ma sono passata in teatro e David mi ha detto… i bambini ti aspettavano.

Mi fece entrare.

- Lo so… mi dispiace ma non potrò più venire all'istituto. 

- Perché… dove stai andando?

In quel momento mi guardò fisso in volto, restando in silenzio ed io avvertii di nuovo quel peso sul petto, poi notai un particolare a cui non avevo dato peso appena entrata.

- I tuoi capelli… li hai tagliati…

Lui abbassò gli occhi.

- Terry vuoi spiegarmi cosa sta succedendo? Ti prego… dove devi andare? Dimmelo…

C'era uno scrittoio nella stanza, vicino al letto, carico di libri. Terence aprì un cassetto e ne estrasse una busta poi me la dette ed io la riconobbi subito: si trattava della lettera di chiamata alle armi. 

- Che significa?

- Significa che fra due giorni devo partire, non conosco ancora la destinazione ma…

- Non è possibile! Ci deve essere un errore, tu sei cittadino americano, l’Inghilterra non può... 

- No, non ancora.

- Ma risiedi negli Stati Uniti da molti anni… dovresti essere dispensato…

- Ci sono state troppe perdite negli ultimi mesi per cui…

- No… non voglio! - protestai quasi gridando.

- Candy… 

- È stato lui! - esclamai. 

- Chi? - mi chiese.

- Il colonnello Coventry! 

- Che dici, Candy?

- Non capisci? Tu mi hai difeso e lui… 

- Anche se fosse così cosa cambierebbe? - mi disse Terence fissando sconsolato la lettera che ancora stringevo nella mano.

- Se ci parlassi potrei convincerlo a…

Non mi lasciò terminare la frase, mi afferrò per le spalle e mi ordinò di non pensarci nemmeno.

- Perché? Non sarà facile fargli cambiare idea, ma potrei spiegargli che tu ed io ci conosciamo da tempo e che tu volevi solo difendermi… 

- Ascoltami bene Candy, tu non devi nemmeno avvicinarti a Coventry, hai capito? Quell'uomo è pericoloso,  promettimi che farai di tutto per evitarlo. 

- Ma Terence…

- Devi promettermelo Candy! Altrimenti averti difesa sarà stato inutile… ti prego. Adesso torna all’orfanotrofio e saluta Samuel e tutti i bambini da parte mia. Vai!

Non potevo crederci, dovevo trovare una soluzione e dovevo farlo in fretta. Non potevo permettere che Terence finisse in quell’inferno. In ospedale ogni giorno avevo sotto gli occhi ciò che la guerra stava facendo ai nostri uomini, uomini in realtà per la maggior parte ancora ragazzi giovanissimi. Loro andavano al fronte, in trincea, non certo gli ufficiali come il colonnello Coventry. Ero sicura che fosse stato lui a fare in modo che Terence venisse arruolato, ma aveva ragione, sarebbe stato inutile tentare di fargli cambiare idea. Ero disperata, cosa potevo fare? Non sapevo minimamente a chi rivolgermi. Ci fosse stato almeno Albert qui con me, lui avrebbe di sicuro trovato un modo. Chi avrebbe mai potuto darmi una mano a Londra?

 

 

*******

 

Londra, aprile 1918

Granchester Manor

 

Dall’esterno il palazzo aveva un aspetto austero che la giornata grigia contribuiva a rendere ancora più cupo. Rispecchiava in tutto il proprietario, il Duca di Granchester. Era al padre di Terence che avevo deciso di rivolgermi sperando che potesse intercedere in qualche modo a favore del figlio. Ero consapevole del fatto che se Terence lo avesse saputo, mi avrebbe odiato, ma il Duca era l’unica persona influente che conoscessi.

Mentre salivo le scale dietro al maggiordomo, mi tremavano le gambe, perché non ero affatto sicura che Sua Grazia avrebbe compreso e accolto la mia richiesta. Sapevo che non aveva mai riallacciato i rapporti con il figlio, ma non potevo credere che di fronte ad una situazione tanto grave, mi avrebbe negato il suo aiuto.

Erano trascorsi cinque anni da quando ci eravamo conosciuti. Non mi apparve molto diverso, anche se ebbi l’impressione che fosse un uomo molto solo. Mi fece accomodare nel suo studio. Rimasi sorpresa nel rendermi conto che si ricordava benissimo di me e forse anche per questo volle sapere subito il motivo della mia visita. Raccogliendo tutto il mio coraggio cercai di spiegargli come stavano le cose. Raccontai quanto era accaduto a Palazzo Coventry e ciò che ne era conseguito.

- Dunque mio figlio si sarebbe messo di nuovo nei guai per colpa sua, Miss Ardlay? – la sua voce tuonò facendomi rabbrividire. Non osai rispondere a quella che sembrava più un’affermazione che una domanda.

- Coventry … - inizò a ripetere più volte questo nome, come se stesse rievocando pensieri e fatti accaduti in un passato molto lontano. Dopo una lunga pausa iniziò a raccontare di un certo George William Coventry, IX Conte di Coventry, grande appassionato di cavalli, con il quale si trovava spesso all’ippodromo.

- Ma i Granchester non hanno mai avuto ottimi rapporti con i Coventry, ricordo furiose discussioni alla Camera dei Lord, persino mio padre non li ha mai tenuti in grande considerazione.

In pochi istanti passai dallo sconcerto alla rabbia furibonda e dimenticai totalmente chi avessi davanti.

- Duca! Le ho appena detto che suo figlio domani verrà spedito al fronte e lei mi parla di cavalli e discussioni alla Camera dei Lord? Si rende conto che potrebbe non rivederlo mai più! – quasi gridai.

- Signorina veda di calmarsi!

- No, non ho alcuna intensione di farlo fino a quando non mi dirà che vuole aiutare Terence.

Le mie parole o forse il modo in cui lo guardai evidentemente ebbero su di lui un qualche effetto. Mi chiese alcune informazioni su dove alloggiasse il figlio (possibile non sapesse che si trovava a Londra!) e il nome del colonnello a cui aveva spaccato il naso. Volle sapere anche il mio indirizzo.

Prima di congedarmi mi fece la stessa domanda di cinque anni prima.

- Signorina Candy lei vuole ancora molto bene a mio figlio, non è così?

Non risposi, lo pregai di tentare qualsiasi cosa pur di non farlo partire.

 Il mattino seguente ricevetti un biglietto:

 

Gentilissima Miss Ardlay,

 ho fatto tutto ciò che era in mio potere per evitare che Terence venisse arruolato, ma sono riuscito solamente ad evitare che venga inviato in prima linea. La sua destinazione è il Mar del Nord, verrà imbarcato su una nave della flotta britannica. Questo pomeriggio partirà con il treno delle 6pm da Victoria Station verso la baia di Scapa Flow, sede della Marina Militare.

Cercherò in ogni modo di avere costantemente sue notizie e la terrò aggiornata, se lei vorrà.

 In fede

Richard A. Granchester

 

 - Oggi pomeriggio, Terence partirà oggi pomeriggio …

Un nodo di lacrime mi stringeva la gola e annebbiava i miei pensieri. 


Capitolo sei




Da più di un’ora rileggevo il biglietto che mi aveva inviato il Duca di Granchester cercando tra quelle poche parole una sola cosa, la certezza che Terence sarebbe tornato sano e salvo. Ma più cercavo e più riuscivo a trovare solo disperazione. Il fatto che non venisse mandato in prima linea non lo esentava dai pericoli che una guerra così cruenta portava con sé. Le notizie che quotidianamente arrivavano dai campi di battaglia volevano far credere ai pochi inglesi rimasti in città che tutto stava volgendo al meglio, ma io vedevo con i miei occhi, nell’ospedale in cui lavoravo, quanto il “meglio” fosse ancora lontano.

D’un tratto udii Miss Dolly che mi stava chiamando dalla cucina. Asciugai le lacrime che senza accorgermene avevano invaso i miei occhi ed andai ad aiutarla a servire il pranzo. Quando entrai tutti i bambini erano già seduti a tavola, tranne uno che arrivò di corsa prendendo posto accanto a me.

- Dov’eri finito questa volta Samuel? – domandai senza ottenere risposta.

Il bambino se ne stava con la testa abbassata sul piatto di minestra fumante e sembrava non aver ascoltato la mia voce.

- Non hai fame?

Questa volta si girò di scatto puntandomi in viso i suoi occhietti blu pieni di collera.

- Che ti succede?

- Perché non mi hai detto che Terence non sarebbe più venuto?

Immaginavo che Samuel avrebbe fatto delle domande, si era molto affezionato a Terence, ma io non sapevo cosa rispondere. Suo padre era al fronte e per fortuna, dopo molti mesi, era giunta la notizia che era stato ferito non in modo grave e che era ricoverato in un ospedale militare inglese vicino Parigi. Presto avrebbe fatto ritorno a casa e il bambino era saltato su dalla gioia. Non avevo avuto il coraggio di parlargli della partenza di Terence…

- Beh… è molto impegnato e probabilmente dovrà partire…

- Tu sei una bugiarda! – esclamò prima di scendere velocemente dalla sedia e fuggire via.

Miss Dolly mi lanciò uno sguardo non troppo stupito perché ormai era abituata alle fughe di Samuel, ma mi suggerì di seguirlo e di riportarlo immediatamente indietro.

Uscii velocemente dall’istituto ma il bambino era già scomparso. Conoscevo più o meno i luoghi dove di solito si rintanava durante le sue bravate. Tuttavia, per tutto il pomeriggio percorsi in lungo e largo i quartieri vicini senza riuscire a scovarlo.

Mi fermai un attimo a riflettere: magari era tornato all’orfanotrofio da solo ed io non potevo saperlo. Ero sul punto di rinunciare quando mi resi conto di trovarmi davanti a Victoria Station. Erano quasi le 5pm. Il treno di Terence sarebbe partito tra poco più di un’ora. Chissà se si trovava già qui.

E se Samuel avesse capito tutto! Misi la mano nella tasca della gonna ma non trovai il biglietto inviatomi dal Duca. Poteva averlo letto, ma allora…

Mi voltai verso la stazione, salii di corsa le scale. Era piena di gente, molti militari. Come avrei fatto a trovare un bambino?

 

*******

 

 

Cercavo in ogni modo di non lasciar trasparire ciò che avevo dentro. Non sapevo quanto e come sarei stato costretto a cambiare questo lato del mio carattere. Ancora mi illudevo che la guerra non mi avrebbe trasformato. Pensavo di poter resistere a tutto, ma già dopo pochi istanti fui costretto a cambiare idea.

Mi trovavo in stazione con un gruppetto di altri soldati che rientravano alla base dopo una licenza, io ero l’unica recluta. Si erano mostrati piuttosto diffidenti all’inizio ed io non avevo fatto niente per risultare simpatico. Poi uno di loro, un certo John Twinkle, mi offrì una sigaretta invitandomi a fumarla perché poteva anche essere l’ultima.

- Grazie per l’incoraggiamento! – esclamai in tono aspro.

- Cos’hai capito? Intendevo dire che dove stiamo andando non se ne trovano molte.

Sorridemmo tutti quanti, iniziando a fumare.

All’improvviso mi sentii tirare per il bordo della divisa, mi voltai abbassando gli occhi e…

- Samuel! Che cosa ci fai qui? Come caspita ci sei arrivato quaggiù!

- Pensavi di partire senza salutarmi? – mi rimproverò con aria severa.

- Come hai fatto a saperlo?

- Questa mattina ho visto Candy piangere… aveva un biglietto in mano. Quando è andata via ho provato a leggere anche se ancora non ci riesco bene… ho visto il tuo nome, quello della stazione e un numero.

Il soldato vicino a me mi chiese se si trattava di mio figlio, gli risposi di no e mi allontanai con lui in un angolo meno affollato. Gli altri mi scrutavano in modo strano. Mi inginocchiai per guardare Samuel negli occhi e fargli capire che non poteva stare lì.

- Ascoltami bene, io non posso accompagnarti ma tu devi tornare subito all’istituto o Miss Dolly questa volta ti darà una bella punizione.

- Volevo dirti che mio padre mi ha scritto e dice che torna a casa presto.

- Questa è una notizia fantastica! Sono davvero felice per te e per tuo padre. Adesso vai però…

Samuel non sembrava affatto intenzionato a darmi retta. Continuava a guardarsi intorno come se stesse cercando qualcuno.

- Hai capito quello che ti ho detto? Devi tornare a casa subito, è troppo pericoloso per te qui, c’è un sacco di gente, rischi di perderti… Samuel mi stai ascoltando?

- Sono sicuro che sta per arrivare.

- Chi sta per arrivare?

Il bambino non mi rispose, si allontanò un po’ da me lungo il binario, sempre più agitato. Mancava ormai poco alla partenza del mio treno.

D’un tratto – Eccola! – gridò – L’ho vista… - indicando con il dito due binari più avanti.

Portai il mio sguardo in quella direzione, ma non riuscivo a vedere bene, poi in un attimo fu tutto chiaro. Un’immagine mi trafisse gli occhi, possibile fosse proprio lei?

- Candy… Candy… sono qui! – udii Samuel gridare e non ebbi più alcun dubbio.

Si faceva largo tra la gente cercando di raggiungerlo, non si era accorta di me. Fu Samuel come al solito ad indicarle con il dito dove mi trovavo. Quando mi vide rimase impietrita ed io lo stesso. Prendendola per mano Samuel la condusse da me con l’espressione fiera di chi sa di aver fatto una cosa buona e che per questo la sua fuga sarebbe stata in qualche modo perdonata.

- Te l’ho detto che sarebbe arrivata!

- Per fortuna, così puoi tornare a casa con lei.

Ora che era davanti a me, vicina a me, non riuscivo a guardarla. Temevo che non sarei stato più capace di partire. Avrei voluto dirle tante cose, ma non c’era più tempo. Era sempre andata così tra noi, dannatamente fuori tempo ogni volta. Quanti incontri mancati per un soffio, quante parole non dette perché non era il momento giusto. E poi lei era qui per cercare Samuel, non per me.

- Dobbiamo andare, Miss Dolly sarà molto preoccupata… - mi disse con un filo di voce.

- Certo, anch’io… devo andare – le risposi voltandomi verso il treno che iniziava a sbuffare.

- Mi scriverai? – mi chiese una piccola voce dal basso.

- Ogni volta che potrò farlo – gli risposi, poi mi rivolsi a Candy chiedendole se avrebbe letto lei le lettere che avrei inviato a Samuel. Lei annuì.

Un fischio feroce colpì le mie orecchie. Mi voltai di nuovo verso il treno e i miei compagni mi fecero cenno che dovevamo salire. Una nuvola di fumo ci avvolse per qualche istante in cui mi sembrò che Candy pronunciasse il mio nome.

- Promettimi che tornerai! – udii chiaramente quando il fumo si dissolse.

Non era in mio potere fare una promessa del genere purtroppo, ma solo in un caso avrei fatto di tutto, solo se…

- Se so che tu mi aspetti, io torno – le dissi in piedi davanti a lei, tremando.

- Ti aspetto – mi rispose con la voce rotta.

Abbozzai un sorriso e poi corsi verso il treno. Gettai sopra il mio bagaglio e prima di salire mi voltai di nuovo verso Candy. Era ancora lì, teneva Samuel per mano. In quell’istante mi tornò in mente cosa mi aveva detto, che l’aveva vista piangere leggendo un biglietto. Piangeva per me… ancora una volta, mentre io desideravo solo vederla sorridere, tentai di farlo e lei timidamente mi rispose. Pensai che quella poteva essere davvero l’ultima volta. Allora perché sprecarla così?

Corsi verso di lei e senza pensarci la baciai. Non potei trattenermi a lungo sulle sue labbra, ma il lieve sapore che lasciarono sulle mie lo avrei portato con me per sempre.

 

 

*******

 

Uscii dalla stazione senza riuscire a rendermi bene conto di quanto era appena accaduto. Samuel mi camminava accanto stranamente silenzioso, giocherellando ogni tanto con qualche sassolino che incontrava sul marciapiede.

Mi sentivo completamente svuotata, era come se la vita mi avesse appena abbandonato, solo una parte di me vibrava ancora, le mie labbra. Il dolce calore che lui vi aveva lasciato, aveva resistito solo pochi istanti, un vento gelido se l’era portato via, quando lo avevo visto scomparire dentro al treno. Mi restava ora solo la sensazione di quel breve contatto che cercavo di trattenere in ogni modo. Avrei voluto nascondermi in un angolo, lontano da tutti, per continuare ad assaporare quell’attimo in cui il nostro amore era tornato, travolgendo ogni mio tentativo di ignorarlo.

Una timida domanda mi riportò alla realtà.

- Candy… ma… Terence ti ha baciata?

- Beh sì… credo di sì…

- Allora siete fidanzati! – esclamò con gioia.

- Come? No no… non siamo fidanzati.

- Ma se ti ha baciata… siete fidanzati!

Mi fermai e lo presi in braccio.

- Ascoltami Samuel, non devi dire a nessuno quello che è successo, mi raccomando, nessuno deve saperlo. Me lo prometti?

- D’accordo… però ti ha baciata! – esclamò di nuovo abbracciandomi.

- Sì, mi ha baciata – mormorai stringendolo a me.


Capitolo sette




Scapa Flow, Orkney Islands

aprile 1918

Dopo la battaglia dello Jutland[1], durante la quale la Royal Navy aveva registrato perdite di uomini e mezzi molto superiori rispetto al nemico, da mesi ormai si era arrivati ad una situazione di stallo. La Grand Fleet, la flotta principale, guidata dall’ammiraglio David Beatty, era ancora stanziata nelle acque gelide del Mar del Nord con lo scopo di far rispettare il blocco navale imposto alla Germania fin dall’inizio del conflitto: l’obiettivo era quello di impedire l’accesso di navi mercantili neutrali nei porti tedeschi, soprattutto attraverso le mine posizionate in mare.

Ma anche i sottomarini tedeschi puntavano ad attaccare le navi mercantili dirette in Gran Bretagna per costringere il Regno Unito alla resa a causa della mancanza di viveri e materie prime.

Questa era la situazione nel momento in cui la giovane recluta Terence G. Granchester, dopo un estenuante viaggio in treno, raggiunse la base navale di Scapa Flow nelle Isole Orcadi, da dove si sarebbe imbarcato sull’Invincible, un incrociatore da battaglia varato nel 1907.

Nel primo mese Terence dovette seguire un severo programma di addestramento durante il quale gli vennero illustrate in maniera dettagliata le caratteristiche dell’imbarcazione su cui sarebbe stato impiegato. Contemporaneamente venne sottoposto ad una massacrante preparazione fisica indispensabile per sopportare la faticosa vita a bordo.

Da un paio di settimane era stato inviato a Point of Carness, un’area di osservazione a difesa della Baia di Kirkwall: la postazione era supportata da un faro per illuminare le acque e da due cannoni da 4 pollici; era poi dotata di una caserma, un magazzino, una cucina, una mensa e delle docce. Insieme a lui si trovava anche John Tinkle, il giovane con cui era partito da Victoria Station. Durante i lunghi turni di guardia gli aveva raccontato di essere uno studente di medicina e di aver lasciato la fidanzata a Londra, la sua città.  A Terence non piaceva parlare molto della propria vita ma inevitabilmente la sua fama attirava la curiosità di chi lo incontrava, per cui per tutti ormai era l’”attore”.

- Ehi attore, ma ora come faranno tutte le tue ammiratrici?

- Scommetto che ricevi più lettere tu di tutta la marina militare!

Lettere … ne aveva scritte più d’una senza ottenere risposta, tranne da sua madre. Eleanor aveva cercato di nascondere la propria disperazione, ma pregava ogni giorno che questa guerra finisse presto. Chissà se tutte le lettere erano arrivate a destinazione. Finché si trovava a terra sarebbe stato più facile inviare e ricevere posta, mentre una volta imbarcato mantenere i contatti con l’esterno sarebbe risultato alquanto arduo.

 

*******

 

 

Londra, maggio 1918

 

I giorni sembravano non passare mai. Da quando Terence era partito tutto mi appariva assurdo. Averlo incontrato a Londra mi aveva stordito all’inizio e anche spaventato, ma non potevo di certo negare quanto mi avesse scaldato il cuore poterlo vedere quasi ogni giorno, parlare con lui, ascoltare la sua voce, vederlo addirittura recitare. E adesso… mi sembrava di averlo perso per la seconda volta. Non avevo più avuto notizie e neanche il Duca di Granchester aveva più cercato di contattarmi. Ogni giorno controllavo il bollettino con la lista dei caduti e dei feriti, tremando ogni volta che il mio sguardo si posava su una T o una G.

La prima lettera arrivò dopo circa un mese dalla sua partenza.

- Candy, Candy … è arrivata! Miss Dolly dice che è per me, guarda. È di Terence vero? È di Terence?

- Calmati Samuel, adesso la apro.

Chiedevo di avere pazienza al bambino, mentre io non avevo il coraggio di aprire quella busta né tantomeno di guardare il mittente. Eppure mi bastò uno sguardo alla grafia per capire chi fosse.

- Candy andiamo in giardino a leggere! – esclamò Samuel saltellando.

Ci mettemmo seduti su una panchina all’ombra di una quercia che mi ricordava tanto il mio “papà albero” della Collina di Pony, poi iniziai a leggere.

 

 

Scapa Flow, 3 maggio 1918

 

Ciao Samuel, come stai?

Spero tanto che tu abbia già riabbracciato tuo padre, deve essere molto fiero di te e tu di lui!

Miss Dolly si sta comportando bene o continua a sgridarti? Dille che quando torno dovrà vedersela con me, però tu cerca di fare il bravo, una piccola fuga al giorno nei paraggi, niente di più, ok?

Qui va tutto bene! La baia è bellissima, soprattutto durante la notte quando è illuminata dalla luce del faro che mi tiene compagnia nei lunghi turni di guardia. Non fa troppo freddo e quando ho un po’ di tempo libero posso persino giocare a pallone con i miei compagni.

Vuoi sapere come si chiamano? C’è John che fa il portiere, Arthur il difensore centrale, Michael che gioca davvero in una squadra di calcio a Glasgow, è il nostro attaccante, e poi ci sono io … il capitano naturalmente!

 

Samuel mi interruppe affermando che era sicuro che Terence fosse il capitano! Poi fece segno con la mano di proseguire.

 

Lo sai che sono anche salito su un aereo! Un istruttore mi ha spiegato un sacco di cose e forse potrei pilotarne uno, un giorno di questi. Se dovessi volare nei cieli di Londra potrei passare a salutarti.

Ti ricordi ancora i versi che ti ho insegnato?

 

…”Con la tua immagine e con il tuo amore, tu, benché assente, mi sei ogni ora presente. Perché non puoi allontanarti oltre il confine dei miei pensieri; ed io sono ogni ora con essi, ed essi con te.”[2]

 

Sono sicuro che ogni volta che li pronuncerai la tua mamma ti ascolterà.

Ti abbraccio forte.

Terence

 

PS: Molto probabilmente questa lettera non arriverà in tempo, in ogni caso… buon compleanno Tuttelentiggini!

 

 

Senza rendermene conto avevo letto ad alta voce anche quest’ultima frase.

- Chi è Tuttelentiggini?

- Come dici Samuel?

- C’è scritto così nella lettera … Tuttelentiggini e dal momento che domani è il tuo compleanno e che hai il viso pieno di lentiggini, vuol dire che Tuttelentiggini sei tu. Non è vero Candy?

- Ebbene sì, mi hai scoperto… è un soprannome che Terence mi ha dato tanto tempo fa, quando andavamo a scuola, ma ora …

- Mi piace! Ti chiamerò anch’io così… Tuttelentiggini… Tuttelentiggini…

Samuel iniziò a saltellare in lungo e in largo per il giardino, canticchiando una specie di filastrocca con il mio soprannome. Io lo osservavo, mentre stringevo quella lettera tra le mani. Si era ricordato del mio compleanno. Ciò che aveva scritto aveva un tono scherzoso e quasi allegro, ma io immaginavo che non poteva essere tutto così bello come voleva far credere a Samuel e forse anche a me. I versi che aveva citato affinché potesse dedicarli alla madre, anche quelli forse non erano solo per Samuel.

 

Verso la fine del mese, prima di essere imbarcato sull’Invincible, nome che secondo Samuel sembrava fatto appositamente per Terence, arrivò un’altra sua lettera in cui scriveva che da quel momento sarebbe stato difficile mantenere i contatti. Non sapeva di sicuro quanto sarebbe rimasto in mare, probabilmente qualche settimana, ma le variabili erano molte.

Nell’ultima busta aveva messo anche una cartolina: raffigurava la baia di Scapa Flow con il mare illuminato dal sole, con alcuni aerei che ne attraversavano il cielo e l’Invincible schierato insieme ad altre navi. Piacque molto a Samuel. Sul retro aveva scritto:

 

“Ogni onda del mare ha una luce differente, proprio come la bellezza di chi amiamo”[3]

 

 

*******

 

Mar del Nord, luglio 1918

 

Da circa tre settimane mi trovavo a bordo dell’incrociatore a cui ero stato assegnato. Grazie agli ottimi risultati che avevo ottenuto durante il periodo di addestramento e quasi sicuramente grazie anche alle mie origini nobili, prima di essere imbarcato, avevo ricevuto i gradi di tenente e mi era stata assegnata una squadra di cui faceva parte anche il mio amico John.

Il primo periodo della missione era stato caratterizzato da attività di pattugliamento a largo della costa tedesca, mantenendosi a distanza adeguata in maniera da non essere esposti ai potenti siluri lanciati dai sommergibili nemici che già nel settembre del 1914 avevano affondato tre incrociatori corazzati britannici, con una perdita di 60 ufficiali e 1400 uomini di equipaggio.

Grossi pericoli arrivavano anche dai banchi minati che le navi tedesche avevano dislocato a protezione delle loro basi.

La strategia militare del Regno Unito prevedeva di mantenere attivo il blocco navale e, quando possibile, danneggiare la flotta tedesca quel tanto che bastava per impedire che le navi venissero utilizzate altrove.

Una delle azioni più importanti fu quella compiuta verso la fine della primavera del 1918 con l’obiettivo di bloccare l’accesso al porto di Bruges che veniva largamente utilizzato dalla marina tedesca come base per i temibili U-Boot. Dopo il fallimento del primo attacco che fece registrare numerose perdite, venne dato l’ordine di fare un secondo tentativo in cui sarebbe stato impiegato anche l’Invincible.

 

- Tenente Granchester abbiamo ricevuto l’ordine di lanciare di nuovo un attacco per chiudere completamente il passaggio per Bruges. Faccia preparare la sua squadra.

- Che cosa? Dopo quello che è successo durante il primo tentativo …

- Tenente devo ricordarle che il suo compito non è giudicare gli ordini ma semplicemente eseguirli.

- Comandante, conosco perfettamente quali sono i miei compiti, ma lei sa meglio di me che questa è un’azione suicida! Se ci avviciniamo ancora saremo sotto tiro e questo incrociatore non è adeguatamente corazzato per reggere l’impatto nemmeno con un solo siluro. Non era questa la nostra missione…

- Tenente lei farà quello che le ho detto o…

- O cosa? Io non ce li porto i miei ragazzi laggiù!

- Vuole finire alla Corte Marziale?

- Mi denunci pure.

 

Improvvisamente ci fu un tremendo boato, la nave oscillò da una parte all’altra e sia io che il comandante ci ritrovammo a terra, al buio.



[1] La battaglia dello Jutland fu il più grande scontro navale della Prima guerra mondiale in termini di naviglio impiegato: ebbe luogo tra il 31 maggio e il 1° giugno 1916 nelle acque del Mar del Nord e vide scontrarsi la Royal Navy britannica e la Kaiserliche Marine tedesca. I caduti britannici furono circa 7000 contro i 3000 tedeschi.

[2] W. Shakespeare, Sonetto XLVII (cit.)

[3] Virginia Woolf (cit.)


Capitolo otto




Londra, novembre 1918

 

Il 18 novembre la Germania aveva firmato l’armistizio imposto dagli alleati. La guerra era finita! C’era una grande eccitazione in città, mista a sgomento e confusione. L’ospedale dove lavoravo continuava ad essere pieno di feriti, nel corpo e nell’anima. I cimiteri non avevano più lo spazio sufficiente a dare neanche una degna sepoltura ai caduti. Grace ed io facevamo dei turni lunghissimi ed estenuanti. Nelle poche ore che avevamo di riposo, non riuscivamo nemmeno a parlare.

Da mesi non avevo più notizie di Terence. Le voci che riguardavano la marina militare parlavano di uno straordinario successo ottenuto contro il nemico, tralasciando le informazioni riguardanti le perdite riportate. Avevo letto solo un piccolo trafiletto di giornale a proposito dell’incidente avvenuto all’incrociatore Invincible sul quale era imbarcato: si parlava di feriti e dispersi, senza tuttavia farne i nomi.  Ferito o disperso, queste erano le uniche parole che giravano nella mia testa senza darmi pace.

No, per me la guerra non era finita!

Ogni giorno cercavo un posto tranquillo in giardino per leggere le notizie sui quotidiani che continuavano a celebrare la vittoria dimenticando chi aveva combattuto per ottenerla. Quel pomeriggio il mio sguardo si bloccò su un articolo che parlava dei prigionieri di guerra e delle condizioni disumane in cui erano stati tenuti dal regime tedesco. Non volevo e non potevo piangere in ospedale e cercai in ogni modo di trattenermi, sentendo le lacrime premere sulle palpebre. Mi sforzavo di non pensare a questa possibilità, Terence prigioniero, no…

- Mi scusi se la disturbo, lei è Miss Ardlay?

Alzai gli occhi nella direzione da cui proveniva quella voce sottile. Davanti a me stava in piedi un ragazzo, molto magro, giovane, con gli occhi grigi e i capelli di un biondo rosso, ricci sebbene portati corti. Mi guardava leggermente piegato da una parte, come se volesse scorgere meglio il mio viso per essere sicuro che fossi proprio io la persona che stava cercando.

- Sì – risposi con uno strano presentimento, aspettando che lui parlasse di nuovo.

Il ragazzo prima fece un leggero sorriso, evidentemente felice della mia risposta, poi si presentò.

- Mi chiamo John, John Twinkle.

- Mi perdoni ma il suo nome non mi dice niente, lei come fa a sapere il mio invece, ci conosciamo?

- No, cioè ci siamo visti… o meglio lei forse no, ma io si.

Lo guardai con la faccia stupita, non capivo cosa stesse dicendo e lui, accorgendosene, cercò di spiegarsi meglio.

- Credo che lei conosca il tenente Terence Granchester, io ero con lui sull’Invincible.

Scattai in piedi, lasciando cadere a terra il giornale, ma dovetti sedermi di nuovo per evitare di svenire. Mi girava la testa, era piena di domande che non avevo il coraggio di fare per paura di conoscere le risposte. Perché quel ragazzo era lì? Perché era venuto a cercarmi? Perché Terence non era con lui?

Si sedette vicino a me, scusandosi ancora per la sua poca delicatezza. Io continuavo a non dire niente ma evidentemente i  miei occhi lo implorarono di parlare.

- Forse lei non sa cosa è accaduto… e allora penso sia mio dovere dirle prima di tutto che…

- Aspetti… mi dica solo una cosa… Terence è vivo?

La mia voce uscì come un sussurro perché udire quelle parole pronunciate dalla mia bocca mi faceva tremare. La risposta arrivò dopo un tempo che mi sembrò infinito, in cui credetti io stessa di smettere di vivere.

- Sì, Terence è vivo. Mi perdoni avrei dovuto dirglielo subito è solo che…

- Dove si trova?

- Si trova in un ospedale militare, vicino alla base di Scapa Flow.

- In ospedale! Allora non sta bene, è ferito?

- Quando l’Invincible è stato colpito il tenente è stato ferito e per un po’ di tempo è rimasto privo di coscienza… poi finalmente si è svegliato e… sta abbastanza bene.

- Perché ho come l’impressione che lei non mi stia dicendo tutta la verità? Perché è qui? Le ha detto Terence di cercarmi?

- No assolutamente, anzi, se lui lo sapesse probabilmente mi ucciderebbe!

- Allora?

Lo vidi prendere aria prima di continuare, mentre la mia agitazione cresceva senza che io riuscissi a controllarla minimamente.

- Se ha la pazienza e il tempo di ascoltarmi le racconto come stanno realmente le cose.

Cercai di non interromperlo con ulteriori domande. Sembrava che raccontare ciò che evidentemente anche lui aveva vissuto, gli costasse molta fatica. Nonostante questo mi disse che quando l’incrociatore era stato silurato, fortunatamente Terence non si trovava nel punto in cui era avvenuto l’impatto, bensì dalla parte opposta. Stava discutendo con il capitano con l’intenzione di opporsi all’ordine di avvicinarsi alla costa nemica. Sapeva che quell’azione sarebbe stata molto pericolosa e avrebbe messo a rischio la vita di tutto l’equipaggio. Dopo lo scoppio, Terence aveva compreso immediatamente la gravità della situazione e senza pensarci era andato subito in soccorso dei ragazzi che di sicuro erano stati coinvolti in maniera più diretta.

- Non sa Miss Ardlay quanti ne ha tirati fuori dalle fiamme, salvandoli! Solo quando non riusciva più a stare in piedi si è arreso, maledicendosi perché non poteva aiutarli tutti.

Detto questo abbassò lo sguardo come a cercare le parole adatte per concludere il suo racconto.

- Probabilmente quello che ha vissuto, che ha visto in quei momenti non …

La  sua voce si spezzò, in fondo anche lui era lì e ricordare non era facile.

- Fisicamente si è ripreso quasi del tutto, ma lo choc che ha subito… è come se la sua mente si rifiutasse di tornare a vedere per la paura di ciò che potrebbe vedere di nuovo.

- Non capisco, cosa intende dire John?

- Il medico che l’ha visitato ha parlato di una “perdita di vista temporanea” dovuta appunto a quello che è successo. Terence inconsciamente si rifiuta di tornare a vedere la luce, preferisce restare nell’oscurità.

- Ma il medico ha parlato di una situazione temporanea, giusto?

- Sì… in effetti non ha riscontrato lesioni agli occhi tali da causare una perdita permanente, però …

- Però?

- Il medico mi ha spiegato che in certe situazioni avere accanto una persona di famiglia potrebbe essere di grande aiuto, mentre dove si trova adesso Terence non conosce nessuno.

- Ed è per questo motivo che lei è venuto a cercarmi?

- Sì.

- Ma se non è stato Terence a mandarla qui perché ha pensato a me?

- Beh… quando siamo partiti da Londra, ad aprile, lei era alla stazione se non ricordo male – mi rispose molto imbarazzato.

Io annuii e lui riprese dicendomi che aveva pensato che Terence ed io fossimo fidanzati o che comunque avessimo un legame molto profondo.

- Ricordo che Terence la salutò “calorosamente” e dopo, quando salì anche lui sul treno, i ragazzi che erano con noi lo presero un po’ in giro, sa come succede… tra uomini, e lui si arrabbiò e non volle parlare di lei…

- Terence ed io non stiamo insieme!

- Come? Ma io credevo… ho visto che… vi siete baciati e ho pensato… oddio Miss Ardlay mi perdoni, sono davvero uno stupido e ora credo di aver sbagliato tutto. Mi scusi, forse l’ho importunata abbastanza e lei deve avere molto lavoro da sbrigare.

Detto questo si alzò in piedi come se fosse sul punto di andarsene.

- Aspetti John la prego. Non la ringrazierò mai abbastanza per avermi portato notizie di Terence, da mesi non sapevo più niente di lui. Sapere che è vivo… non può capire che cosa significhi per me. Mi dica che cosa vorrebbe che io facessi.

Esitò un momento poi mi disse che la cosa migliore sarebbe stata far trasferire Terence dall’ospedale militare qui a Londra, in ospedale o anche in un alloggio, ma a questo avrebbe pensato lui.

- La cosa più importante è sapere se lei se la sente di stargli vicino. Mi dica di sì la prego, credo che sia l’unica persona che conosce in Inghilterra.

Io sapevo che c’era un’altra persona che conosceva Terence, ma non potevo essere sicura che lui avrebbe acconsentito ad andare da suo padre. Invece che cosa mi dava la certezza che sarebbe stato felice che fossi io a prendermi cura di lui? Preferii non rispondere a questa domanda. Dissi semplicemente a John che avrei fatto di tutto per aiutare Terence. Lui mi sorrise e mi strinse le mani, promettendomi che mi avrebbe informata appena fosse stato possibile trasferirlo a Londra.

 

*******

 

Londra, dicembre 1918

 

Dopo due settimane e dopo un lungo viaggio, il tenente Terence G. Granchester giunse al Charing Cross Hospital di Londra. L’oculista che lo visitò confermò la diagnosi emessa dal medico dell’ospedale militare: i bulbi oculari non presentavano nessun danno, la perdita della vista era dovuta ad una problema di natura psicologica. Dunque si trattava di una cecità temporanea, ma nessuno sarebbe stato in grado di dire per quanto tempo si sarebbe protratta.

 

- Non deve preoccuparsi tenente, ne ho visti molti di casi come il suo e la maggior parte delle volte si sono risolti in breve tempo, dipende soprattutto da lei.

- Che cosa dovrei fare dottore?

- Cercare di dimenticare quello che è successo.

- Impossibile! Non ha un’altra cura da consigliarmi?

- No, non ce l’ho. Questa è l’unica, ma non è impossibile come crede. Cerchi di concentrarsi solo su pensieri positivi, su ciò che la rendeva felice prima che accadesse tutto questo. Credo che un ragazzo come lei avesse molti buoni motivi per essere felice della propria vita, si concentri su quelli e vedrà che tutto andrà bene.

Rimasi in silenzio senza sapere cosa dire al dottore: cosa mi rendeva felice, bella domanda a cui non avevo una risposta.

- Non deve dirlo a me, ma a se stesso. Inizi da qualcosa di semplice, si ponga un piccolo obiettivo ogni giorno che possa farle tornare il sorriso.

- Inizierei da qualcosa di pratico allora: se fosse possibile fare un bagno, ne sarei felice.

- Bene! Prendersi cura di sé mi sembra un ottimo punto di partenza. Una delle nostre infermiere la aiuterà, la faccio chiamare.

Dopo pochi minuti udii aprire e chiudere la porta. Si dice che i non vedenti sviluppino molto gli altri sensi, forse è per questo che riconobbi immediatamente quel profumo, il suo profumo.

- Miss Ardlay il paziente è appena stato trasferito, ha fatto un lungo viaggio e avrebbe bisogno di cambiarsi, ci pensa lei?

- Certamente.

- No aspetti un attimo dottore, posso farcela da solo, non ho bisogno di aiuto… glielo assicuro. All’ospedale militare…

- Tenente non conosce ancora questo posto, non può farlo da solo. Stia tranquillo, la lascio in ottime mani.

Sentii Candy avvicinarsi e afferrare delicatamente le mie spalle, invitandomi a seguirla. Dopo pochi metri entrammo in un’altra stanza. Mi spiegò in maniera molto professionale che dietro un paravento avrei potuto spogliarmi ed entrare nella vasca, dopo lei mi avrebbe aiutato a lavarmi e a rivestirmi.

- Candy non ce n’è bisogno… - le dissi imbarazzato.

- Non preoccuparti, è il mio lavoro. Piuttosto dimmi come stai?

- Così…

- Passerà vedrai, il dottor Walker è un ottimo medico.

Immergersi nell’acqua calda fu una sensazione molto piacevole, da diverso tempo non ne avevo avuto la possibilità. Le docce della base erano decisamente un’altra cosa, quasi sempre fredde. All’ospedale militare poi non ne parliamo. Certo essere lì con Candy non era semplice. Dopo essere entrato nella vasca, lei si era seduta alla mie spalle, per aiutarmi a lavare i capelli e la schiena strofinandola leggermente con un panno umido e del sapone. Non riuscivo a dire niente. Ero sicuro che qualunque cosa avessi detto la mia voce mi avrebbe tradito perché incapace di camuffare ciò che sentivo. In quel momento le parole del medico mi apparvero estremamente chiare: un unico pensiero avrebbe potuto trascinarmi fuori dall’oscurità in cui ero piombato. Solo con lei accanto avrei rivisto la luce.

- Sono molto felice che tu sia tornato – mormorò d’un tratto.

Sentii le sue parole scivolarmi sul collo come una carezza e un brivido mi percorse la schiena.

- Hai freddo, forse è meglio che ti asciughi…

- No aspetta… mi dispiace non aver più scritto ma non potevo.

- Non devi scusarti, posso solo immaginare quanto sia stato difficile… John mi ha raccontato.

- John è un caro amico, un po’ impiccione!

Candy sorrise e qualcosa le cadde per terra, probabilmente il sapone. Si piegò per raccoglierlo e nel farlo i suoi capelli mi sfiorarono la spalla. Istintivamente mi voltai dalla sua parte ed ebbi la netta sensazione che il suo viso fosse molto vicino al mio. Non so come spiegarlo ma era come se avvertissi vibrare la sua pelle, così allungai una mano ed incontrai la sua guancia. Lei non si ritrasse. Il suo respiro caldo mi accarezzò il polso. Mi sembrò che stesse piangendo, ma non ne ero sicuro, forse era stata la mia mano a bagnarle il viso. Per un attimo mi apparvero i suoi occhi. Desideravo così tanto rivederli, probabilmente stavo sognando. Intorno era tutto completamente buio e silenzioso, solo il leggero sciabordio dell’acqua tra noi.


Capitolo nove




Londra, Charing Cross Hospital

dicembre 1918

 

Entro nella tua stanza. Una luce leggera filtra dalla finestra. Percepisco il tuo lieve respiro. Mi avvicino. Dormi ancora. Rimango incantata a guardarti per alcuni istanti: la tua schiena, le braccia sotto al cuscino, i capelli scompigliati sulla fronte. D’un tratto, come se tu avvertissi la mia presenza apri gli occhi.

- Buongiorno, ti ho portato gli asciugamani puliti – ti dico, stranamente imbarazzata.

Tu non parli. Ti volti e mi sorridi. Mi vedi! Resto a bocca aperta… puoi vedermi!

Allunghi la mano verso di me, senza dire niente. Faccio ancora un passo e la mia mano è nella tua, calda e mi stringe dolcemente attirandomi a te. Non capisco ma non oppongo resistenza. Sono felice e sconvolta.

Tiri giù la coperta, ti sposti leggermente per farmi spazio. Mi abbandono vicino a te, la mia testa sul cuscino dove fino ad un attimo prima c’era la tua. Il calore mi inonda la guancia.

Con un dito accarezzi il mio profilo, spostandomi una ciocca di capelli, la tua mano si ferma sul mio collo. Sono completamente paralizzata, ma non mi faccio domande perché temo le risposte. Guardo solo i tuoi occhi e vedo noi. Il tuo respiro sul mio viso. Avvicini la fronte alla mia. Le nostre labbra si sfiorano per un istante ed io dimentico tutto. La tua mano scivola dietro la mia nuca, tra i miei capelli. Chiudo gli occhi mentre le mie labbra fanno il contrario. Ti fermi su di loro ancora un po’, come se tu stessi per attraversare le porte del paradiso, un paradiso che credevamo perduto. Non voglio più aspettare. Il mio braccio ti circonda i fianchi, il tuo anche. I nostri corpi combaciano perfettamente come le nostre bocche che si fanno strada l’una dentro l’altra.

Ho l’impressione che la mia vita sia tutta qui, tra le tue braccia. Mi sembra di volare in una nuvola di calore, in una nuvola d’amore… mi baci e ti bacio, non conta nient’altro.

 

Mi svegliai e tu non c’eri. Non potevo crederci… avevo ancora la sensazione delle tue labbra sulle mie, il calore della tua mano tra i miei capelli… dov’eri?

Era stato solo un sogno! Possibile? Eppure tutto mi era sembrato così reale!

Mi chiedevo quale fosse il significato di ciò che avevo provato e sentito così chiaramente. Era questo ciò che desideravo dunque, potevo fingere ancora?

Dovevo andare da lui quella mattina. Mi alzai con la testa ancora confusa e quelle sensazioni che non volevano abbandonarmi. Così quando entrai nella sua stanza, mi sentii mancare il respiro. Come nel sogno Terence stava ancora dormendo ma appena mi avvicinai si mosse, come se mi stesse aspettando.

- Buongiorno, come ti senti?

- Buongiorno Candy, come al solito – mi rispose, sedendosi sul letto.

- Aspetta, ti aiuto.

- Non importa, ce la faccio, ormai conosco la stanza. Vado a vestirmi.

Il tuo passo si era fatto più sicuro, nonostante tu non avessi ancora recuperato la vista. Ma il medico aveva dato ottime speranze ed io ero certa che saresti tornato quello di prima.

- Ti sistemo il letto intanto.

Nel momento in cui mi passasti accanto avvertii il calore che emanava il tuo corpo appena uscito dal letto e pensai vergognandomene che era un bene che tu non potessi vedere il mio viso.

Che cosa mi stava succedendo? Ebbi il coraggio di chiedermelo questo volta e la risposta arrivò da sola senza indugi: non mi era mai capitato di desiderare così tanto un uomo.

Che sciocca ero stata! Mi ero davvero illusa di riuscire a prendermi cura di te come una qualsiasi infermiera e tu un normale paziente? Era evidente come io non ne fossi in grado. Cosa avrei dovuto fare adesso?

Il tuo atteggiamento era stato sempre più che rispettoso nei miei confronti. Nessuna battuta, nessuna presa in giro e stranamente questo mi metteva ancora più a disagio.

Che cosa stavi pensando? Avrei voluto tanto saperlo.

 

*******

 

Le mie notti erano sempre piuttosto agitate. Quello che avevo visto e vissuto non voleva abbandonarmi e, contrariamente a quello che diceva il dottor Walker, impegnarmi a ricordare ciò che mi rendeva felice non mi stava aiutando. Ad essere sincero, nelle mie lunghe giornate immerso nel buio l’immagine che non lasciava mai i miei pensieri era una sola. La sua presenza quotidiana, poter ascoltare la sua voce mentre mi raccontava di Samuel e del padre che incredibilmente era tornato sano e salvo dal fronte occidentale, mi faceva stare tranquillo ma allo stesso tempo si rafforzava in me l’illusione che il fatto di essersi rincontrati per caso a Londra avesse un significato ben preciso. Ma non potevo esserne sicuro fino a quando non fossi tornato a vedere di nuovo.

Mancavano pochi giorni a Natale. Durante la notte la temperatura era scesa molto e la neve aveva imbiancato Londra per la felicità dei bambini che quella mattina si affrontavano a gruppi in furibonde battaglie. Furono proprio i loro schiamazzi a svegliarmi. Era uscito il sole e il riverbero dei suoi raggi sulla neve mi ferì gli occhi. Aprendoli avvertii una fitta molto forte, li richiusi e poi molto lentamente provai a sollevare leggermente le palpebre, scrutando la stanza attraverso le ciglia. Mi voltai dalla parte opposta alla finestra, sulla parete dove scoprii si trovava un piccolo specchio. Fu lì che mi vidi, riflesso, stentando a riconoscermi. Mi avvicinai accarezzandomi il viso smagrito, i capelli che si erano allungati, il segno della barba. Un nodo mi strinse la gola, non so se per la gioia o la paura.

Un attimo dopo bussarono alla porta. Sapevo che era lei.

- Buongiorno, sei già sveglio! Non immagini quanta neve è caduta questa notte, le strade si sono riempite di ragazzini… è una gioia vederli ridere di nuovo e…

Si voltò verso di me, vide i miei occhi aperti e lasciò cadere per terra il vassoio che teneva in mano.

- Terence… ma tu…

- Buongiorno Tuttelentiggini, ti trovo bene!

Senza pensarci corse verso di me abbracciandomi. Rimasi sorpreso e un po’ impacciato ricambiai stringendola.

 - Che entusiasmo! – esclamai canzonandola e lei si ritrasse, uscendo velocemente per andare a chiamare il dottore.

 

- Mi sembra tutto a posto. Come le dicevo tenente non è stato necessario molto tempo.

- Crede che non avrò più problemi dottore?

- Assolutamente, può stare tranquillo, i suoi occhi possono tornare a fare strage di ragazze!

Sorrisi abbassando la testa, sbirciando l’espressione seria di Candy che se ne stava in piedi vicino al medico. Mentre Walker continuava a farmi eseguire alcuni movimenti per accertare che le mie funzioni neurologiche fossero a posto, la guardavo. Da mesi non la vedevo se non nei miei sogni e ora non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Non mi era mai apparsa tanto bella e l’unica cosa che desideravo era…

- Bene, per sicurezza la terrei ancora un paio di giorni in ospedale, dopodiché direi che quando vuole può tornare a casa.

Le parole del dottore mi riportarono di colpo alla realtà. “Tornare a casa”, questo significava rientrare negli Stati Uniti, riprendere la mia vita. D’improvviso non ero così sicuro di volerlo fare e mi voltai di scatto verso Candy che abbassò gli occhi.

Quando tornai nella mia stanza la trovai lì, stava pulendo il pavimento dove aveva rovesciato il vassoio con cui mi stava portando la colazione. Senza dire niente mi inginocchiai per aiutarla a raccogliere i pezzi della tazza di tè che si era rotta.

- Sarai affamato, vado a prendere un altro vassoio.

Ebbi l’impressione che mi stesse tenendo a distanza. Adesso che potevo guardarla evidentemente lei si sentiva a disagio, perché? Per settimane si era presa cura di me, che cosa c’era di diverso ora? Forse non mi ero sbagliato. Ogni tanto c’erano stati dei momenti di silenzio tra noi, soprattutto quando ci trovavamo vicini mentre mi aiutava a cambiarmi o mi passava le medicine che dovevo prendere, oppure quando sostituiva la fasciatura che avevo sulle mani ustionate durante l’esplosione. Ecco, in quei silenzi mi sembrava di sentire il nostro amore gridare.

Nella stanza trovai i miei vestiti, mi cambiai e prima di indossare una camicia pulita, mi misi davanti allo specchio per radermi. Quando Candy tornò non avevo ancora finito. Senza voltarmi, le lanciai uno sguardo attraverso lo specchio che avevo davanti, dicendole che poteva lasciare la colazione sul tavolino. Lei lo fece, poi si trattenne un istante come se stesse per dirmi qualcosa.

- C’è una persona che mi ha chiesto di poterti incontrare appena ti fossi ristabilito.

- Chi? Samuel? Piacerebbe anche a me rivederlo, deve essere cresciuto.

- Beh sì, Samuel aspetta da tanto di poterti salutare, ma c’è anche un’altra persona che probabilmente aspetta da molto più tempo.

- Di chi stai parlando? – le chiesi iniziando ad incuriosirmi, mentre mi abbottonavo la camicia.

La vidi esitare e mi avvicinai, incoraggiandola a parlare.

- Il Duca di Granchester – disse infine tutto d’un fiato, come se quel nome rischiasse di scottarle la bocca.

- Cosa? Che cosa vuole da me quell’uomo? Non ho alcuna intenzione di incontrarlo, è già stato difficile dover sopportare di essere chiamato “tenente Granchester” figuriamoci trovarmelo davanti! Non ci penso proprio!

- Credo che abbia saputo che sei stato arruolato e sarà stato in pena per te… è tuo padre in fondo e…

- Adesso se ne ricorda! In tutti questi anni non ero suo figlio? La verità è che non mi ha mai considerato come un figlio, sono sempre stato un bastardo, non mi ha mai…

- Amato? Forse si è reso conto di aver sbagliato… io credo che dovresti almeno tentare, prima di ripartire.

Su quelle ultime parole la voce di Candy si era affievolita, poi senza dire altro se ne era andata, lasciandomi da solo con i miei pensieri.

 

*******

 

Il giorno seguente, senza aspettare una risposta, in perfetto stile Granchester, il Duca si presentò nella sala d’aspetto del Charing Cross Hospital. La sua presenza creò non poca agitazione tra il personale medico essendo uno dei principali finanziatori del nosocomio (cosa che avrei appreso soltanto anni dopo).

Mi trovavo in giardino quando Candy venne a chiamarmi informandomi della sua presenza.

- Com’è possibile? Ti avevo detto che non volevo assolutamente incontrarlo!

- Andiamo Terence, non posso di certo rimandarlo indietro! Ti prego, solo un momento, vuole sapere come stai.

- Sto bene, riferisciglielo da parte mia!

Candy mi guardò con un’aria di dolce rimprovero con cui sapeva bene di potermi convincere.

- D’accordo, lo aspetto qui – acconsentii sospirando, cercando di contenere la rabbia.

- Perché non entri? Qui si gela, vi preparo un tè, che ne dici?

- Sei sempre la solita impicciona! – esclamai seguendola.

Candy lo aveva fatto accomodare nell’ufficio del dottor Walker. C’era anche lui quando entrai, probabilmente stava spiegando al Duca ciò che mi era accaduto e come fortunatamente mi ero ripreso. Rimasi in silenzio senza guardarlo. Lui si alzò quando il dottore ci lasciò soli.

- Ho saputo, volevo sapere… come stai figliolo? – balbettò.

- Sto bene ora. La vostra visita non era necessaria.

- Se posso fare qualcosa…

- Non c’è niente che possiate fare ve lo assicuro. Avrete già parlato col dottore per cui non c’è bisogno di dire altro.

Non volevo restare in quella stanza un minuto di più e mi diressi verso la porta, ma lui mi fermò trattenendomi per il braccio. Avevo dimenticato la sensazione delle sue mani su di me, l’ultima volta fu a causa di mia madre, quando ero andato a cercarla in America: il Duca mi dette uno schiaffo, proibendomi categoricamente di vedere ancora “quella donna”!

- Non toccatemi!

Mi lasciò il braccio pregandomi comunque di restare ancora un momento.

- Non è solo per informarmi sul tuo stato di salute che sono qui. Ho bisogno di parlarti, non ti ruberò molto tempo.

- Non abbiamo niente da dirci.

- Invece sì, si tratta di Miss Ardlay.

Fu solo in quel momento che lo guardai in faccia per la prima volta da quando ero entrato nella stanza.

- Che cosa c’entra Candy?

Mi fece cenno di sedermi, mentre anche lui si accomodava. Rimase in silenzio per qualche istante come a voler raccogliere le idee, poi mi disse che Candy era andata da lui quando aveva saputo che ero stato arruolato.

- Che cosa è venuta a fare? – gli domandai temendo fortemente la sua risposta.

- A chiedermi di intervenire in tuo favore, affinché tu non fossi costretto a partire. Mi raccontò quello che era successo e credo si sentisse in colpa verso di te. Era convinta fosse stato il colonnello Coventry a farti arruolare, per vendicarsi.

Non potevo credere a quello che avevo appena ascoltato. Non riuscivo a dire una parola, ma sentivo crescere dentro di me una rabbia furibonda e non sapevo quanto ancora sarei riuscito a trattenerla. Rimasi stupito quando mi resi conto che il Duca aveva capito perfettamente cosa stessi provando.

- So che questo ti farà arrabbiare e forse avrei fatto meglio a non parlartene, ma c’è un motivo molto importante che mi ha spinto a farlo.

- E quale sarebbe? – gli chiesi mentre tentavo di riprendere a respirare normalmente.

- Vorrei impedirti di commettere il mio stesso errore.

- Non capisco di cosa stiate parlando.

- Quando si ha la fortuna di trovare l’amore, allo stesso tempo si ha il dovere di difenderlo ad ogni costo. Se si decide di non farlo saremo condannati all’infelicità per il resto della nostra vita.

- È a mia madre che vi riferite?

- Sì, ad Eleanor e anche a Candy. Quella ragazza ti ama profondamente e se tu la ami ancora, come credo, devi avere il coraggio e la forza di lottare per questo sentimento, altrimenti nessuno di voi potrà mai essere felice: né tu, né Candy, né nessun altro.

Ebbi l’impressione che il Duca sapesse molte cose di me e di come avessi trascorso gli ultimi anni della mia vita, ma com’era possibile? Non avevamo più contatti da quando avevo lasciato Londra quattro anni prima.

- Ascoltami Terence ti prego. So di aver sbagliato tutto nella vita, sia con tua madre che con te, e mi rendo conto perfettamente che ormai è troppo tardi per rimediare. Tu ed Eleanor non mi perdonerete mai ed io lo accetto, ma proprio perché so cosa si prova a rinunciare all’amore della propria vita ti scongiuro di non fare la stessa cosa. Te lo ripeto, nessuno di voi sarà felice, sacrificare il vostro amore non sarà servito a nulla. Penso che tu desideri costruirti una famiglia, avere dei figli, sappi che anche loro saranno condannati ad un’infanzia senza amore come io ho fatto con te.

La sua voce si spezzò. Io ero senza parole. La mia rabbia si era trasformata pian piano in una strana confusione: mi sembrava assurdo che proprio lui avesse il coraggio di darmi lezioni sull’amore, lui che aveva ammesso di aver sbagliato tutto.

“Non amerò mai come mio padre”… mi vennero in mente queste parole che avevo pronunciato molti anni prima, dov’erano finite?


Capitolo dieci





Ma tutto ciò che tocca noi, te e me,
ci prende insieme, come d’un archetto
il colpo che a due corde trae una voce.[1]

 

 

Londra, 24 dicembre 1918

 

Era la vigilia di Natale, il giorno prima ero stato dimesso e John si era offerto di ospitarmi fino a quando non sarei ripartito. Quel pomeriggio eravamo andati in centro per acquistare dei regali, desideravo rivedere Samuel e portare dei doni ai bambini dell’istituto.

Passeggiavamo per Piccadilly carichi di pacchetti colorati. C’era molta gente in giro e si aveva quasi l’illusione che la guerra fosse davvero un lontano ricordo. John era al settimo cielo perché aveva intenzione di chiedere a Charlotte, la sua fidanzata, di sposarlo, ed aveva insistito molto perché lo aiutassi a scegliere un anello. Il gioielliere ce ne mostrò una serie infinita, con tutte le pietre preziose più belle esistenti al mondo e il mio amico non sapeva assolutamente decidersi. Inoltre le sue finanze erano piuttosto contenute e scegliere diventava ancora più complicato. Gli consigliai di pensare a com’era Charlotte, cosa ai suoi occhi la rendesse speciale, secondo me questo lo avrebbe aiutato a trovare il gioiello giusto. Ci impiegò quasi un’ora ma alla fine il destino del futuro sposo ricadde nei bagliori di una fascia in oro bianco con al centro un piccolo brillante tagliato a cuore che gli ricordava la purezza del suo animo.

Mentre John aspettava trepidante che il pacchetto venisse confezionato, il mio sguardo si posò su una vetrina alla mia destra. All’interno faceva bella mostra di sé uno smeraldo la cui verde trasparenza mi fece rabbrividire.

- Un oggetto molto bello, unico direi, come la ragazza a cui è destinato suppongo – mi sussurrò il gioielliere che si era avvicinato a me senza che io me ne accorgessi.

John mi chiamò, potevamo andare. Lungo il tragitto di ritorno non la smetteva più di parlare tanta era la sua agitazione, mentre io ero molto silenzioso.

- E Candy, è a lei che pensavi davanti a quello smeraldo, giusto? – mi chiese d’un tratto.

Io lo guardai sorpreso, sembrava avermi letto nel pensiero. Scossi la testa.

- Andiamo Terence, non vorrai tornare in America e lasciare qui un gioiello tanto prezioso?

- Non ho scelta.

- Ma che dici! Io proprio non vi capisco, si vede lontano un miglio che siete cotti l’uno dell’altra! Qual è il problema?

- È una lunga storia John, difficile da spiegare…

- Ok, che avete un passato l’ho capito, probabilmente un passato doloroso, ma questo non mi sembra abbia cancellato i vostri sentimenti. Possibile che non ci sia una soluzione?

Dopo il dialogo con mio padre non avevo fatto altro che pensare a cosa avrei potuto fare. Il Duca mi aveva pregato di lottare per difendere il nostro amore e adesso John sembrava suggerirmi la stessa cosa. Per entrambi era evidente che Candy ed io ci amassimo ancora, ma come potevo essere sicuro che lei…

Su una cosa però John aveva ragione, non potevo partire senza almeno provare a parlarle.

Nel tardo pomeriggio mi recai all’orfanotrofio, sperando di trovarla lì. Miss Dolly mi accolse calorosamente, dicendomi che era stata molto in pena per me e che era felice di vedermi di nuovo in ottima forma. La ringraziai e le offrii i regali che avevo portato per i bambini.

- Mi dispiace che Candy non ci sia, sarebbe stata felice di salutarti. So che sei in partenza.

- Sì, fra due giorni torno a casa – risposi cercando di nascondere la mia delusione.

- I tuoi cari non vedranno l’ora di riabbracciarti immagino.

La nostra conversazione venne interrotta da un piccolo uragano di nome Samuel che appena mi vide fece di corsa tutto il corridoio, gettandomi al collo le piccole braccia.

- Io l’ho sempre saputo che saresti tornato, come il mio papà!

I suoi occhi lucidi mi strinsero il cuore. Quanto dolore per un bambino che nonostante tutto trovava ancora la forza di sorridere. E il suo sorriso contagiò anche me quando mi disse che Candy sarebbe arrivata tra poco.

- Me l’ha detto lei! – confermò con una scintilla furbesca negli occhi.

E infatti dopo pochi minuti udii la sua voce che salutava Miss Dolly in cucina. Io ero rimasto a parlare con Samuel che mi riempiva di domande, voleva sapere tutto degli incrociatori da battaglia e soprattutto dell’Invincible di cui conservava gelosamente la cartolina che gli avevo mandato.

- Candy hai visto chi c’è? – le disse vedendola entrare nel piccolo salotto – Terence ha promesso di suonare qualcosa al pianoforte, io gli ho detto di aspettare te ma ora che sei arrivata possiamo andare!

Samuel ci prese entrambi per mano per condurci nella stanza dove il piano giaceva muto da quando ero partito. Mi sedetti e cominciai a suonare qualcosa di allegro per i bambini che entusiasti battevano le mani a tempo. Candy era alle mie spalle e non potevo vederla anche se mi sembrava di sentirla sorridere. Terminato il mio piccolo concerto, Miss Dolly mi invitò a restare a cena con loro, ma io dissi che non potevo perché mi aspettavano a casa di John.

- Posso almeno offrirti uno dei miei dolcetti di Natale, Candy potresti andare a prenderli per favore?

Candy uscì e quando tornò portando i biscotti di Miss Dolly, nella stanza non c’era più nessuno tranne me. Rimase sorpresa e per un attimo anch’io non dissi niente, poi…

- Ti va di uscire a fare due passi? – le chiesi.

Lei acconsentì e senza che nessuno ci vedesse andammo in giardino. La neve dei giorni scorsi si era quasi disciolta del tutto. Era una di quelle sere d’inverno rigide ma limpide e calme. Il vociare che durante il giorno aveva animato la città adesso era scomparso. Un silenzio accogliente riempiva il piccolo giardino illuminato dalla luna.

- Perché non mi hai detto niente del Duca? – le chiesi senza alcun tono di rimprovero, ma solamente per sapere.

- Ti saresti arrabbiato, ma in quel momento non sapevo cos’altro fare, mi dispiace.

- Non devi scusarti. Certo non mi ha fatto piacere il fatto che lui sia intervenuto per evitare che finissi in prima linea, ma tutto quello che è successo in questi ultimi mesi, compreso il fatto che tu sia andata da lui, mi ha fatto riflettere su alcune cose e vorrei poterle condividere con te.

Candy mi guardò come se si aspettasse ciò che le avevo appena detto, ma non capivo se questo la spaventasse o piuttosto desiderasse sentirmi parlare. Non disse nulla ed io ripresi, cercando di non distrarmi. Perché era così dannatamente bella!

- Ti confesso che, dopo la rabbia iniziale, mi ha fatto piacere rivederlo e ho avuto l’impressione che, anche se da molto tempo ci siamo allontanati, in realtà lui non abbia mai smesso di interessarsi a me.

- Sono molto felice che siate riusciti a trovare un punto di contatto finalmente, anche se è solo l’inizio credo sia importante. Mi chiedo tuttavia come abbia fatto il Duca a farti cambiare idea su di lui.

- Beh non è che proprio ho cambiato idea, però… diciamo che mi è sembrato sincero quando ha ammesso le proprie colpe e soprattutto i propri errori. È per questo che ha deciso di venirmi a cercare.

- Voleva chiederti di perdonarlo?

- In realtà non ci ha neanche provato, mi ha detto che non si aspetta che lo perdoni, ma il suo più grande desiderio è che io non commetta i suoi stessi errori.

- Che vuoi dire? – mi chiese, interrompendo la nostra passeggiata.

Non sapevo dove trovare le parole, eppure sentivo che quello era il momento.

- Mio padre è convinto che anch’io stia sprecando il dono più grande che si possa ricevere nella vita… il dono dell’amore.

Candy si girò di scatto dalla parte opposta alla mia, nascondendo il viso. Notai comunque sussultare il suo petto, come a voler trattenere un grido o un singhiozzo di pianto. Poi riprese a camminare, io non la seguii e la chiamai sperando si voltasse. Lo fece.

- Puoi immaginare quanto sia difficile per me ammettere che il Duca abbia ragione, ma credo proprio che sia così: ho incontrato l’amore una sola volta nella mia vita e non sono stato in grado di difenderlo, ma forse non è tutto perduto…

- Terence… ti prego…

- Candy… sono passati due anni da quella notte in cui so di aver sbagliato tutto però… il destino o quello che vuoi ci ha fatto incontrare di nuovo e da quel momento abbiamo ricominciato a prenderci cura l’uno dell’altro, senza dirci niente, senza bisogno di parole né di spiegazioni. Vorrà pur significare qualcosa questo o no?

- Terence… fermati… Tu non hai sbagliato niente quella notte, è così che doveva andare…

- No, adesso mi ascolti!

Mi avvicinai afferrandola per le spalle, facendo in modo che mi guardasse. Ora che potevo vederla, speravo di leggere nei suoi occhi la verità. Quella notte, quando ci separammo, la rincorsi sulle scale, ma lei non si voltò, continuò a darmi le spalle, solo in quel modo trovammo la forza di lasciarci. Ma ora no, dovevo capire!

- Ricordi quando sono partito per Scapa Flow e ci siamo salutati alla stazione?... Mi sentivo come un condannato a morte e ai condannati si chiede quale sia il loro ultimo desiderio. Mentre stavo per salire sul treno anch’io me lo sono chiesto ed è per questo che sono tornato indietro e ti ho baciata. Se quella fosse stata davvero l’ultima volta in cui ti avrei vista, ciò che più desideravo era portare con me il tuo sorriso e il sapore delle tue labbra. Tu non mi hai preso a schiaffi, forse perché non ce n’è stato il tempo o forse… perché anche tu avevi espresso lo stesso desiderio.

- È stato un momento molto difficile quello… non ho ragionato, non ero lucida e non so…

- Forse semplicemente hai lasciato parlare il tuo cuore! In queste settimane in cui non potevo vederti ho avuto spesso l’impressione che i nostri cuori si parlassero invece, battendo allo stesso ritmo ogni volta che eri vicino a me, mentre ti prendevi cura delle mie mani era il mio cuore che tornava a vivere insieme al tuo. Io lo sentivo e lo sento anche adesso. Non fingere che non sia così, ti prego.

Continuavo a stringerla per le spalle ma lei teneva gli occhi bassi.

- Guardami – la implorai.

Finalmente, dopo qualche istante, alzò il viso verso il mio ed io, nei suoi occhi, rividi passare tutta la nostra storia: il primo incontro sul Mauretania, i giorni trascorsi alla St. Paul School, la festa di maggio e poi… la Scozia… la mia partenza da Londra, la sua corsa dietro al mio treno, le nostre lettere… era tutto lì, niente era stato perso, niente era cambiato!

Le sorrisi, lei anche. Non saprei descrivere quell’istante, era come se fossi tornato me stesso, come se solo in lei io potessi esistere. Mi piegai leggermente, avvicinando le mie labbra alle sue, riuscii solamente a sfiorale perché le sue parole mi gelarono il sangue.

- Non possiamo! – esclamò come spaventata.

- Sì che possiamo… - le sussurrai a fior di labbra.

- No – mi ordinò decisa, facendo un passo indietro e allontanandomi con le mani sul mio petto.

- Candy perché?

Lei abbassò gli occhi ed estrasse dalla tasca del cappotto una lettera, poi me la porse.

- È arrivata questa mattina in ospedale. Quando ho saputo che saresti passato all’orfanotrofio ho pensato di portartela.

Non capivo, lessi il mittente: Susanna Marlowe. Sollevai subito gli occhi cercando quelli di Candy. Non potevo permettere che accadesse di nuovo, che Susanna si mettesse ancora fra noi.

- Susanna non c’entra niente, è di noi che stiamo parlando!

- Come puoi dire una cosa del genere? Non possiamo fingere che lei non esista!

- Non ho detto questo, ma perché non possiamo provare a gestire la situazione in maniera diversa? Senza dover rinunciare…

- Terence ti prego finiscila!

- No, finiscila tu! Susanna sta bene adesso, in questi anni mi sono preso cura di lei, ho fatto in modo che avesse tutto il necessario per ristabilirsi e anche per tornare a lavorare per il teatro. Non posso fare di più, c’ho provato ma non posso, lo capisci?!

- Sei tu che non capisci! È te che vuole, non le interessa tutto il resto se non può avere te. Ti sei forse dimenticato che ha tentato di togliersi la vita quando sono venuta a Broadway?

- Non può avermi, non mi avrà mai, perché io amo un’altra donna e quella donna…

- Non dirlo!

Candy mi impedì di continuare, coprendomi la bocca con la sua mano. Era gelida e tremava. Poi la sentii mormorare qualcosa.

- Le ho fatto una promessa… una promessa che ho già tradito troppe volte in questi ultimi mesi.

- Di cosa stai parlando?

- Le ho giurato che non ti avrei rivisto mai più.

- Cosa? Non puoi averlo fatto, dimmi che non è vero, dimmelo Candy, dimmi che non è vero! – gridai.

Le mie parole svanirono nel buio della notte, mentre ricominciava a nevicare. Candy corse dentro e non la vidi più.



[1] Rilke, Rainer Maria. Canto d’amore (cit.)


Capitolo undici





Porto di Southampton

27 dicembre 1918

 

Partivo. Per la seconda volta lasciavo Londra senza di lei. Dal ponte della nave, in un’alba velata di foschia, osservavo la costa inglese allontanarsi.

Non riuscivo a pensare ad altro se non a quell’assurda promessa. Possibile che avesse rinunciato a noi… per sempre? Non vedersi più, mai più…

Avevo il cuore così pesante che avrebbe potuto far affondare la nave che mi stava riportando in America. Cosa sarebbe stato adesso della mia vita? Sarei riuscito ad andare avanti come se niente fosse accaduto durante gli ultimi mesi?

Dopo la dimissione dall’ospedale, nei giorni trascorsi a casa di John, parlavamo spesso di quello che avevamo condiviso. Lui mi parlava di futuro, del suo futuro che significava una vita con Charlotte. Quanti ragazzi avevamo visto cadere, nel momento in cui la loro vita stava per spiccare il volo. Quante vite spezzate alle quali era stato negato il futuro. John diceva che anche per loro sentiva il dovere di non perdere tempo e di vivere al massimo la vita che quasi miracolosamente gli era stata concessa, una seconda volta.

E io? Forse non avevo ricevuto anch’io una seconda possibilità? Incontrare Candy a Londra che cosa aveva significato? Potevo liquidare i mesi trascorsi insieme solo come un incontro con un’amica, una compagna di scuola, una passione adolescenziale? Sapevo bene che non era così, né per me né per lei!

Cosa ci impediva di stare insieme allora? Candy me lo aveva detto chiaramente, ma non potevo accettarlo! Non più.

Rientrato in cabina, presi dalla valigia la lettera di Susanna e la lessi di nuovo.

 

New York, 10 dicembre 1918

Carissimo Terry,

 

sono felice e sollevata di apprendere che finalmente ti sei ristabilito del tutto. Non puoi immaginare quanta paura io abbia avuto nel saperti coinvolto nell’attacco all’incrociatore sul quale eri imbarcato. Sono stati mesi molto difficili anche per me, senza avere tue notizie.

Quando ho ricevuto la comunicazione ufficiale che ti eri salvato e che eri ricoverato in un ospedale militare, ho pensato che quello fosse il giorno più bello della mia vita, ma credo di sbagliarmi: non sarò davvero felice fino a quando non sarai di nuovo qui, con me. Spero che questo possa avvenire il prima possibile. Non vedo l’ora di poterti abbracciare e constatare con i miei occhi che stai bene.

Non riesco ancora a spiegarmi come tutto questo sia potuto accadere, come tu possa essere stato arruolato. Ho parlato con Robert ma anche lui non ha saputo darmi nessun chiarimento. Spero che tu possa farlo, che tu voglia raccontarmi quello che hai vissuto. Vorrei condividere con te ogni tua pena, ogni tua sofferenza.

Avrai di sicuro bisogno di un periodo di riposo per ristabilirti completamente. So che i reduci di guerra necessitano di tempo per dimenticare e riprendere una vita normale. Sono sicura che un animo gentile e sensibile come il tuo non possa essere rimasto indifferente alle atrocità a cui avrai dovuto assistere. Ma quando sarai di nuovo a casa, farò il possibile affinché tu torni ad essere il ragazzo di cui mi sono innamorata. Non importa quanto ci vorrà, io ti aspetto, come sempre!

Spero di veder nascere il nuovo anno insieme a te.

 

Con tutto il mio amore

tua Susanna

 

 

Non sarei mai dovuto arrivare fino a questo punto. Le sue parole d’amore mi davano la nausea. Quanto avrei voluto poter tornare indietro a quella notte. Appena lei se ne andò, capii subito di aver sbagliato tutto, ma non sapevo come uscirne, non lo sapevo accidenti! Susanna aveva tentato di togliersi la vita ed era solo questo pensiero a riempire la mia mente. Susanna che non aveva esitato a gettarsi su di me pur di salvarmi! Ma presto mi resi conto che aver perso Candy mi avrebbe ugualmente condannato ad una morte lenta, ad una lunga agonia, senza alcuna possibilità di guarigione. L’unica medicina che ancora mi teneva in vita era il teatro. Solo grazie al palcoscenico ero riuscito a sopravvivere. Anche adesso mi mancava molto.

Quei giorni di navigazione furono una vera tortura. Quello che avevo passato in Inghilterra non era stato facile da affrontare, ma per assurdo mi ero sentito libero dopo tanto tempo di poter decidere della mia vita: durante i giorni in cui potevo perderla con facilità, la vita mi sembrava così preziosa e, come aveva detto il mio amico John, avevo il dovere di onorarla ora più che mai. Allora perché, tornando a New York, mi sentivo come un animale che sta per essere chiuso di nuovo in gabbia?

Mi trovavo ancora a bordo la notte del 31, quanto avrei desiderato averla con me!

 

*******

 

New York, 4 gennaio 1919

 

- Terry! Figlio mio…

Vedere mia madre gettarsi letteralmente ai miei piedi, in lacrime, mi fece capire in un solo istante quanto avesse sofferto durante la mia assenza. L’aiutai a rialzarsi e restammo abbracciati senza dire una parola. Poi si mise ad osservarmi come per accertarsi che fossi davvero io, che fossi tutto intero. Notò subito la mia magrezza e ordinò alla cuoca di mettersi immediatamente a lavoro. Quando ci sedemmo a tavola infatti ebbi l’impressione che volesse farmi recuperare con un solo pranzo tutto il peso che avevo perso.

- Sto bene mamma, non devi più preoccuparti.

- Perdonami figliolo, ma avrò bisogno di un po’ di tempo per abituarmi all’idea che tu sia davvero tornato sano e salvo.

- Tu devi perdonare me, non volevo farti star male…

- Non penso proprio tu debba fartene una colpa, anche se non riesco ancora a capire come sia potuto accadere… ero certa che non potessi essere arruolato.

- Evidentemente ad un certo punto le regole sono saltate, sono stati chiamati al fronte persino i ragazzi del ’99, è stata una strage… ma ora non voglio parlarne.

- Certo, capisco. Ti ho fatto preparare una stanza, avrai bisogno di riposo.

Dormii non so per quante ore e per la prima volta dopo molti mesi fu un sonno tranquillo.

La mattina dopo andai in teatro. Tutta la compagnia era riunita e l’accoglienza che ricevetti fu qualcosa che non mi aspettavo. Vedere tutti con gli occhi lucidi mi riempì d’orgoglio perché evidentemente quello che avevo costruito con i miei colleghi andava ben oltre un semplice rapporto professionale. Non ero mai stato un tipo troppo espansivo né socievole, ma lavorando fianco a fianco negli ultimi anni la compagnia teatrale era diventata per me qualcosa di molto simile ad una famiglia. Robert poi, non riusciva a parlare tale era la sua commozione. Abbracciandomi, mi disse che avrebbe desiderato fare di più ma che non aveva mezzi necessari per potermi aiutare. Mi confidò che quando erano stati costretti a lasciare Londra e tornare in America, gli era sembrato di avermi abbandonato.

- Robert non dire così, tu sei come un padre per me lo sai… non avresti potuto fare niente. Ma puoi fare qualcosa ora, fammi ricominciare a lavorare al più presto. In questi mesi mi è mancato persino l’odore del palcoscenico!

- Non hai bisogno di un po’ di riposo?

- Assolutamente no, ho bisogno di tornare alla mia vita, ho bisogno di tutto questo!

- D’accordo, la prossima settimana faremo una riunione e decideremo insieme come farti rientrare in Compagnia. Credo anche che sia il caso di organizzare una conferenza stampa.

- Perfetto, non vedo l’ora!

Uscito da teatro, mi restava una cosa sola da fare: andare da Susanna. La trovai da sola in casa e appena mi vide il suo viso si illuminò.

- Ti trovo bene – le dissi.

Da diverso tempo utilizzava una protesi con la quale riusciva a muoversi piuttosto liberamente, aiutandosi solo con un bastone. Mi venne incontro gettandomi le braccia al collo e lasciando andare il bastone, cosicché io dovetti sostenerla. Rimase aggrappata a me per qualche istante, con il viso sprofondato nel mio petto, dicendomi che le sembrava di sognare.

- Perché non ci sediamo?

Ci accomodammo in salotto. Venne servito del tè. Susanna iniziò a farmi un sacco di domande, pretendeva che le raccontassi tutto quello che era successo. Mentre io rispondevo a malapena, in realtà pensavo a tutt’altro. Durante il viaggio di ritorno dall’Inghilterra, avevo avuto modo di riflettere su tante cose, soprattutto sul mio rapporto con lei: non eravamo amici, non eravamo fidanzati, non eravamo amanti, non eravamo innamorati. Eppure era come se tra noi ci fosse stato fino a quel momento un tacito accordo. Ero sicuro che sia io che Susanna sapevamo perfettamente che il nostro non era un legame basato su dei veri sentimenti, ma non ne avevamo mai parlato in modo chiaro.

Interruppi le sue domande, chiedendo a lei che cosa avesse fatto in questi mesi. Mi disse che aveva lavorato ad un paio di musiche per il teatro e persino ad una sceneggiatura. Le feci i miei complimenti poi le dissi che c’erano alcune cose di cui dovevamo parlare. Mi guardò come se la cosa non la stupisse, ma restò in silenzio in attesa che io continuassi.

- Ricomincerò presto a lavorare e ho deciso di comprare una casa nuova… nel frattempo andrò ad abitare da mia madre – le dissi chiaramente, guardandola negli occhi.

Lei non parlò subito, come se stesse cercando una motivazione plausibile a ciò che avevo appena detto. Questo era tipico di lei, riusciva a manipolare gli eventi a suo piacimento.

- Capisco benissimo, riprendere a recitare dopo un anno di assenza non sarà facile, avrai bisogno di tranquillità e quindi una casa tutta tua, senza nessuno che possa disturbarti, è la soluzione ideale in questo momento.

- Non si tratta solo di questo momento, non è una soluzione provvisoria, intendo trasferirmi definitivamente in un’altra casa.

Si alzò in piedi, andando verso una delle grandi finestre che lasciavano filtrare una luce grigia e fredda. Con una mano, lasciò ricadere i lunghi capelli biondi lungo la schiena, alzando il mento.

- Dopo l’inferno che hai attraversato, mi rendo perfettamente conto che tu sia ancora molto provato e sconvolto. Non è il Terry che conosco quello che sta parlando.

- Hai ragione, sono cambiato, ma questo non significa che ciò che dico non sia vero.

- Sei appena arrivato, hai sicuramente bisogno di tempo per riprenderti, credo che tu non possa essere lucido – affermò con voce ferma, continuando a darmi le spalle.

- Credimi Susanna, non sono mai stato così lucido!

- Adesso smettila! – gridò voltandosi verso di me – Perché mi torturi in questo modo? Non ho fatto altro che pensare a te in tutti questi mesi, aspettando il tuo ritorno. Non sai quanto ho pregato che tu ti salvassi e ora mi dici che vuoi andartene, che vuoi abbandonarmi?

- Non ho detto questo, ma non posso più continuare così e neanche tu, sii onesta Susanna almeno con te stessa.

- Tu dovresti essere onesto con me! È successo qualcosa, non è vero? Abbi il coraggio di dirmelo!

Non volevo farle del male, nonostante tutto non volevo farle del male. Mi ero illuso che avrebbe accettato la mia decisione, ma mi sbagliavo. La stavo di nuovo sottovalutando e non potevo più permettermelo.

- Scommetto che hai trovato un’altra ragazza, anzi più di una… so quello che si dice dei soldati e di come se la spassano nei bordelli! Terence Graham, il grande attore, avrà fatto strage di cuori, ti sarai divertito immagino!

Mi alzai in piedi, mi avvicinai a lei, stringendo i pugni per trattenere la rabbia che le sue parole stavano scatenando dentro di me.

- “Divertito”… è questo che pensi, che io mi sia divertito in questi mesi? – non potei fare a meno di gridarle.

Abbassò gli occhi.

- Hai trovato comunque il modo per dimenticarti di me, ti sarai innamorato di un’altra donna.

- Lo sono sempre stato, nonostante tu le abbia fatto promettere di non vedermi mai più!

- Chi te lo ha detto? – mi chiese sconvolta.

- Me lo ha detto lei.

- Allora vi siete incontrati… rispondimi, vi siete incontrati?

- Evidentemente anche il destino ha trovato assurda quella promessa. Ho incontrato Candy a Londra, lavora come infermiera volontaria in ospedale.

- Quindi è stata lei a prendersi cura di te… ecco perché non tornavi più! E lei dov’è adesso, fuori che ti aspetta?

Per evitare di prenderla a schiaffi, tirai un pugno contro il vetro della finestra che andò in mille pezzi. Susanna gridò mentre la mia mano iniziava a sanguinare.

- Puoi continuare a stare in questa casa se vuoi, è tua. Sosterrò le spese per le visite mediche e le cure di cui hai bisogno, come sempre. Nei prossimi giorni manderò qualcuno a prendere le mie cose. Addio Susanna.

Mentre scendevo le scale, la sentii gridare più volte il mio nome, finché non chiusi il portone alle mie spalle.


Capitolo dodici




Londra, gennaio 1919

 

I mesi difficili che erano seguiti all’armistizio sembravano finalmente portare i loro frutti. La popolazione aveva voglia di riprendere a vivere normalmente e a Londra si respirava un gran fermento. Gli ospedali si stavano pian piano ridimensionando, non erano più così affollati come durante gli anni del conflitto. La pace stava riconquistando la vita delle persone e, anche se si continuava a piangere i caduti, il naturale spirito di sopravvivenza e di rivalsa dell’uomo sembrava prendere il sopravvento.

Solo nella mia mente continuava ad imperversare una tremenda battaglia tra ciò che era giusto fare e ciò che desideravo veramente. Da quando Terence era partito mi sembrava di averlo perso una seconda volta e questo aveva rinnovato senza alcuna pietà il mio dolore. Era stato incredibile essersi incontrati a Londra per caso, nella città in cui era nata e cresciuta la nostra storia, il nostro amore. Aveva senso usare questa parola, corrispondeva alla realtà di ciò che avevamo vissuto? Non avevo dubbi su questo: Terence ed io ci eravamo amati, molto. Fin dal primo incontro qualcosa in lui mi aveva attratto inesorabilmente. Era un bel ragazzo senza dubbio, con un fascino del tutto naturale, non passava decisamente inosservato, ma non era stato il suo aspetto a fare in modo che mi legassi a lui quasi senza rendermene conto. Era diverso dai ragazzi che avevo conosciuto, anche da Stear ed Archie che erano comunque cresciuti in un ambiente simile al suo. Era diverso persino da Anthony, nonostante all’inizio mi fossero apparsi simili. Che cosa lo rendeva tanto particolare? Nei primi tempi il fatto di non riuscire a comprenderlo fino in fondo, poi l’averlo compreso del tutto e sentire che anche lui riusciva a capirmi perfettamente, anche quando ero io stessa a non essere capace di decifrare ciò che sentivo. Quando mi baciò, lui aveva già capito che non eravamo più solamente buoni amici, mentre io reagii nel modo peggiore possibile, prendendolo a schiaffi. Ma non dimenticai più quel bacio.

E se lui avesse avuto ragione ancora una volta? Se fosse stato come sempre capace di vedere oltre ciò che a me sembrava impossibile? Non riuscivo a cancellare quello che era successo a New York, la sera in cui Susanna aveva tentato di togliersi la vita. Se non fossi intervenuta, se non avessi fatto in tempo, probabilmente anche la vita mia e di Terence sarebbe finita su quella terrazza. Per fortuna Susanna era ancora viva e in quel momento ero sicura che una ragazza capace di un gesto come quello avrebbe saputo amarlo più di chiunque altro. Terence non avrebbe mai potuto lasciarla, non sarebbe mai riuscito ad ignorare ciò che era accaduto.

Eppure, durante il nostro ultimo dialogo la sera della vigilia di Natale, lui mi aveva detto di aver sbagliato tutto quella sera e che adesso dovevamo parlare di noi perché se eravamo di nuovo insieme non poteva trattarsi semplicemente di un caso. Ma quando gli avevo rivelato la promessa fatta a Susanna il suo sguardo era cambiato: rabbia e delusione che io non ero riuscita a sostenere ed ero fuggita. Poi non ci eravamo più visti e dopo pochi giorni John mi aveva detto che era partito.

Adesso mi chiedevo che cosa stesse pensando. Lui si era aperto con me ed io lo avevo respinto e ferito di nuovo. Era giusto? Era questo quello che dovevo fare? In quel momento pensavo di sì ma ora mi chiedevo se Terence potesse essere davvero felice in questa situazione. Io lo ero? E Susanna?

Mi trovavo in giardino con i bambini che stavano giocando, quando Miss Dolly interruppe i miei pensieri dicendomi che c’era una persona che desiderava vedermi. John apparve alle sue spalle, sorridendomi un po’ intimidito.

- John che piacere rivederti, come stai?

- Bene. Scusami se ti disturbo ma avrei bisogno di parlarti un attimo, è possibile? – mi chiese facendosi serio.

- Certo, andiamo dentro.

Miss Dolly rimase con i bambini, mentre John ed io ci accomodammo in salotto.

- Che cosa devi dirmi? – lo incoraggiai a parlare vedendo che esitava.

- Avrei bisogno di chiederti un favore.

- Se posso, volentieri.

Si alzò in piedi ed estrasse dalla giacca un piccolo contenitore di velluto blu, molto simile a quelli che vengono usati per custodire gli oggetti preziosi come ad esempio un anello.

- Ho saputo che presto rientrerai negli Stati Uniti e, se per te non è un problema, ti chiederei di consegnare questo gioiello ad una persona.

Detto questo mi porse il cofanetto, facendomi capire che potevo aprirlo.

- Oh mio Dio! È bellissimo… non mi intendo di pietre preziose, ma questo smeraldo è incredibile.

- Hai ragione Candy, è un oggetto magnifico e molto prezioso. La persona che lo ha perso vorrebbe riaverlo.

- A chi appartiene?

- A Terence.

Rimasi di ghiaccio e, cercando di non far trasparire la mia agitazione, gli chiesi perché ce l’avesse lui.

- Vedi si tratta di Samuel…

- Cosa c’entra Samuel?

- Prima che Terence partisse siamo andati in una gioielleria per acquistare un anello per la mia fidanzata, e lui è rimasto molto colpito da questa pietra, però non l’ha comprata quel giorno… deve averlo fatto dopo, io non lo sapevo. Qualche giorno fa è venuto da me il padre di Samuel portandomi questo anello, dicendomi che il bambino lo aveva preso quando erano venuti a casa mia a salutare Terence. Era molto dispiaciuto e mi ha pregato di restituirlo al proprietario.

- Perché mai Samuel ha fatto una cosa del genere? Non è un ladro.

- Non lo so, io non ho parlato col bambino, dovresti chiederlo a lui.

- Lo farò, ma io come posso aiutarti?

- Beh vedi… ho scritto a Terence spiegandogli l’accaduto e lui mi ha chiesto di spedirgli l’anello a New York. Mi ha dato il suo indirizzo, eccolo qui.

John mi allungò un foglietto dove era scritto dove abitava Terence.

- Continuo a non capire, perdonami. Vuoi che lo spedisca io?

- No… vedi temo che inviarlo per posta possa essere rischioso, non vorrei che venisse perso. Terence ci tiene moltissimo. Ho pensato che quando tornerai in America potresti portarglielo tu, una volta sbarcata a New York.

- Io?

- Sì, in questo modo sarebbe in ottime mani e sarei sicuro che arriverebbe a destinazione.

- Ma io non posso…

- Perché?

- Non so ancora quando partirò, magari Terence vorrà averlo al più presto.

- Nella lettera non lo dice, non credo che abbia fretta. Ti prego Candy…

Non riuscii a dirgli di no, anche se l’idea di andare a casa di Terence mi sembrava assurda.

Dopo qualche giorno parlai con Samuel chiedendogli spiegazioni in merito al furto dell’anello. Mi disse che gli dispiaceva molto aver preso una cosa che non era sua e promise di non farlo più.

- Perché lo hai preso, non è un giocattolo e vale molti soldi, lo sai?

- Sì lo so. Ma ho pensato che… fosse per te e che Terence si fosse dimenticato di dartelo – confessò timidamente.

- Per me?

Il bambino annuì senza guardarmi.

- Non credi che se fosse stato per me ci avrebbe pensato Terence a regalarmelo?

Samuel annuì di nuovo e guardandomi con i suoi occhietti blu mi disse che secondo lui chi si vuole bene dovrebbe stare insieme. Poi scappò in giardino a giocare con gli altri bambini.

 

*******

 

Avevo iniziato a preparare i bagagli. Il mio lavoro a Londra come infermiera volontaria stava per terminare. Mancavo da Chicago da più di un anno e i contatti con la mia famiglia erano stati sporadici purtroppo. Avevo scambiato solo qualche lettera con Albert ed Annie.

In una delle ultime ricevute dalla mia cara amica, mi informava che aspettava con ansia il mio ritorno perché doveva dirmi una cosa molto importante. Pensai che quasi sicuramente a Villa Ardlay si stava organizzando un matrimonio. Dopo la tragica scomparsa di Stear era la prima bella notizia che avrebbe portato un po’ di serenità. Ero molto felice per Archie ed Annie.

Chissà se anch’io un giorno sarei riuscita a formare una famiglia tutta mia, ad avere dei figli…

Senza rendermene conto indirizzai il mio sguardo verso il comodino vicino al letto. Nel primo cassetto avevo riposto l’anello che avrei dovuto consegnare a Terence. Lo presi per poterlo ammirare ancora una volta. Era un gioiello molto bello e sicuramente di grande valore. Secondo quanto raccontato da John, Terence doveva averlo acquistato poco prima di partire, quindi probabilmente dopo la nostra discussione. Mi chiedevo che cosa lo avesse spinto a farlo e soprattutto a chi fosse destinato. Senza dubbio si trattava di uno di quegli anelli che un uomo compra quando ha intenzione di chiedere la mano di una donna, della donna che ama. Possibile che l’anello che tenevo in mano fosse destinato a Susanna? Io avrei dovuto portare a Terence l’anello con cui lui avrebbe chiesto a Susanna di diventare sua moglie? Non potevo crederci! Quanto ancora il destino aveva intenzione di accanirsi su di me!

Ebbi la tentazione di indossarlo, ma poi pensai che se lo avessi fatto, la sensazione di averlo al dito non mi avrebbe più abbandonato, come quella delle sue labbra sulle mie. Richiusi il cofanetto e lo misi in valigia, decisa a non aprirlo più.


Capitolo tredici





Londra, febbraio 1919

 

Il giorno della partenza era arrivato. Il direttore dell’ospedale congedandomi mi aveva fatto i complimenti per il lavoro svolto, sottolineando la mia competenza e il mio spirito di sacrificio. Mi sentivo orgogliosa e soddisfatta per tutto quello che avevo fatto, era stato un anno molto importante per la mia crescita professionale.

Mi dispiacque molto dover salutare le mie colleghe ed in particolare Grace che in questi mesi mi era stata di grande aiuto a livello lavorativo ma soprattutto a livello umano.

- Candy non sai quanto mi rattrista che tu te ne vada, ma capisco che hai nostalgia di casa.

- Sei una cara amica Grace, se un giorno deciderai di visitare gli Stati Uniti ti aspetto a Chicago, sarai mia ospite!

- Mi piacerebbe tanto!

Prima di recarmi al porto di Southampton, passai dall’orfanotrofio per salutare Miss Dolly e i bambini. Li trovai riuniti nella stanza dei giochi. Ognuno di loro aveva preparato un biglietto o un disegno da regalarmi. Ricevetti non so quanti baci e abbracci da quei piccoli, alcuni si misero a piangere e cercai di consolarli dicendo loro che non li avrei mai dimenticati. Anche Miss Dolly aveva gli occhi lucidi mentre salutandomi mi consegnava una scorta per il viaggio dei suoi famosi dolcetti.

Quando tutti furono usciti, mi fermai ancora un po’ in mezzo alla stanza dove avevo rivisto Terence per la prima volta, dopo tanto tempo. Quella sera pioveva molto forte ed era appena saltata la corrente, ma appena entrai qui tornò la luce. Era lui la mia luce.

Mi sedetti al piano, accarezzando i tasti che anche le sue mani avevano sfiorato. Chiusi gli occhi e lo vidi di nuovo lì seduto a suonare e a far divertire i bambini. Rividi il suo sorriso, le mille espressioni del suo volto. Poi il giorno della partenza, il terrore di vederlo salire su quel treno, lui che tornava verso di me, le sue labbra per pochi istanti di nuovo sulle mie. L’angoscia dei mesi senza avere sue notizie, il suo ritorno e la gioia immensa di potermi prendere cura di lui, di potergli stare accanto. Iniziai a piangere e senza accorgermene le mie dita presero a suonare le poche note che era riuscito ad insegnarmi durante quelle dolci lezioni scozzesi.

- Candy il tuo taxi è arrivato.

- Grazie Miss Dolly, arrivo subito – le dissi tentando invano di nascondere le lacrime.

- Benedetta figliola… permettimi di dirti una cosa: sei una ragazza in gamba e soprattutto sempre pronta a sacrificarti per chiunque abbia bisogno o si trovi in difficoltà, ma cerca di pensare anche a te qualche volta, te lo meriti. Questo non vuol dire essere egoisti bensì avere rispetto per se stessi e per la vita.

- Grazie Miss Dolly, ci proverò.

Ci abbracciammo e poi salii sul taxi. L’ultima immagine che rimase per molto tempo nei miei occhi fu il visetto dolce ed impertinente di Samuel che mi salutava gridando “a presto Tuttelentiggini”!

 

Il tragitto verso il porto di Southampton da cui anche Terence era partito, mi riportò alla mente la folle corsa in carrozza per raggiungerlo la notte in cui aveva lasciato la St. Paul School. Quella volta non ero arrivata in tempo, adesso invece avevo scelto di lasciarlo andare. Nuovo dolore si sovrapponeva al vecchio dolore e come un macigno gravava pesante sul mio stato d’animo.

Salire sul transatlantico che mi avrebbe riportato in America fu il colpo di grazia. Evitai con cura di affacciarmi sul ponte e mi chiusi in cabina, illudendomi che questo sarebbe stato sufficiente a proteggermi da altra sofferenza.

Cercai con tutta me stessa di riprendermi, pensando che una volta rientrata a casa, sarei riuscita ad andare avanti con la mia vita. Prima di tornare a lavoro in ospedale, avevo programmato una breve vacanza alla Casa di Pony, il luogo dove le mie ferite avevano sempre trovato guarigione. Sarebbe stato così anche questa volta, Miss Pony e sister Lane mi conoscevano così bene che avrebbero trovato il modo di prendersi cura di me. Certo anch’io avrei dovuto metterci un po’ di impegno e presto sarei tornata la Candy di sempre, allegra e combattiva.

Mi restava solo uno scoglio da superare: consegnare quell’anello. L’avevo nascosto nel fondo della valigia, per essere sicura di non perderlo, ma anche per sfuggire alla tentazione di guardarlo di nuovo. Eppure mi sembrava di sentirlo bruciare sulla mia pelle, di riconoscere il bagliore verde dello smeraldo sul soffitto. Ormai mi ero convinta che quel gioiello fosse destinato a Susanna e, pur avvertendo una fitta al petto ogni volta che lo immaginavo al suo dito, ero arrivata a pensare che quella fosse la naturale conseguenza di ciò che avevo detto a Terence. Non gli avevo lasciato alcuna speranza, facendogli capire chiaramente che avevo intenzione di mantenere la promessa di non vederlo mai più.

 

 

*******

 

New York, febbraio 1919

 

Era trascorso circa un mese da quando ero rientrato in America. Dopo la discussione che avevo avuto con Susanna, non l’avevo più vista e la cosa mi sembrava alquanto strana. Oltretutto nemmeno la signora Marlowe si era fatta viva e, conoscendola, non mi sentivo affatto tranquillo.

Avevo fatto trasferire le mie cose in un appartamento nuovo che avevo acquistato in una zona piuttosto tranquilla della città. Avevo pian piano ripreso a studiare, ma sentivo di non riuscire a trovare ancora la giusta concentrazione, ad immergermi completamente nel personaggio come accadeva prima di partire per l’Inghilterra. Un sottile strato di inquietudine si agitava sul fondo della mia mente, senza lasciarmi mai. Non sapevo da cosa dipendesse. Hathaway se ne era accorto avendomi visto nascere come attore, me ne aveva parlato ma senza mettermi troppa pressione, mi aveva semplicemente consigliato di non avere fretta, di sicuro ogni cosa sarebbe tornata al suo posto.

- Sei un grande attore Terence, non puoi aver dimenticato improvvisamente come si fa! – aveva scherzato cercando di rassicurarmi.

Secondo lui la mia difficoltà di concentrazione era dovuto a ciò che avevo passato, io invece non ne ero così sicuro. Non potevo di certo negare che la guerra in cui ero stato coinvolto in maniera del tutto inaspettata avesse lasciato segni indelebili che spesso durante la notte tornavano a torturare i miei sogni. Tuttavia temevo che la mia irrequietezza dipendesse da altro, ovvero da ciò che era accaduto dopo la fine della guerra. Le settimane trascorse in ospedale con Candy vicino, nonostante non potessi vederla, mi avevano fatto capire molte cose. Soprattutto avevo compreso chiaramente che non volevo ripetere gli errori commessi in passato. Ero deciso a non perderla di nuovo, ma non avevo fatto i conti con ciò che voleva lei. Quella assurda promessa poi fatta a Susanna mi aveva letteralmente messo al tappeto. Probabilmente la mia agitazione dipendeva da questo: avevo iniziato a pensare di essermi immaginato tutto, di aver creduto solamente io in un amore fasullo che Candy non aveva esitato a cancellare, addirittura per sempre. Questo tarlo aveva iniziato a scavare gallerie profonde nel mio cuore, ne avvertivo il lavorio continuo e incessante che avrebbe finito per sgretolarlo. Non avevo idea di come poterlo fermare.

Non ero ancora rientrato in teatro. Avevo ripreso a lavorare, ma per il momento a casa, chiedendo a David di darmi una mano. Dopo qualche tempo si era sparsa la voce ed anche gli altri ragazzi della Compagnia avevano iniziato a frequentare il mio appartamento. Almeno un paio di giorni a settimana ci riunivamo, ufficialmente per lavorare, anche se ogni tanto ci lasciavamo andare ad attività più divertenti.

Quel venerdì sera si erano unite a noi anche le ragazze, Karen e Judith, l’ultima arrivata alla Stratford.  Avevamo riletto alcune parti della nuova commedia che sarebbe stata portata in scena a partire da settembre, poi Arthur aveva proposto di fare una pausa e, tra una bevuta e l’altra, avevamo finito per lasciarci andare a scherzi e risate. Anche in quei momenti il mio tarlo continuava il proprio lavoro. Per tentare di scacciarlo mi ero messo al pianoforte e con David stavamo eseguendo a quattro mani un noto  motivo jazz.

- Hanno suonato! – esclamò Karen d’un tratto – Terence aspetti qualcuno?

- Sarà quel ritardatario di Michael, anche in teatro arriva sempre dopo, mandando Hathaway su tutte le furie.

- Hai ragione Arthur… vado io ad aprire – si offrì Karen.

Poco dopo tornò nel salone e avvicinandosi mi disse che non si trattava di Michael, ma di un fattorino che doveva consegnare un pacchetto direttamente a Terence Graham.

- Un pacchetto per me? – domandai stupito andando verso l’ingresso.

Dovetti firmare assicurando che fossi io Graham, come se la mia faccia non si conoscesse, dopodiché ricevetti una piccola scatola quadrata, piuttosto leggera.

- Che cos’è?

- Non ne ho idea Karen.

- Aprilo dai, muoio dalla curiosità!

Presi dallo scrittoio un tagliacarte per eliminare l’involucro in cui era racchiuso e all’interno di una scatola di cartone trovai…

- Non è possibile… - mormorai riconoscendo il piccolo astuccio di velluto blu.

Lo aprii e la luce di un incredibile smeraldo fece brillare gli occhi delle ragazze e sghignazzare i ragazzi.

- Ehi Terence, di solito sono gli uomini a regalare gioielli alle fanciulle! – esclamò Arthur canzonandomi e facendo ridere gli altri.

- Che piaci molto alle donne è risaputo, ma non avrei mai immaginato che tu avessi un corteggiatore segreto e che addirittura ti spedisse gioielli – rincarò la dose David, alimentando le risate di tutti.

Io ero senza parole, impietrito. Non riuscivo a capire. Ero convinto di averlo perso.

- Questo anello l’ho comprato a Londra, è mio.

Karen mi si avvicinò, mentre nella sala era caduto il silenzio.

- Da dove arriva? – mi chiese l’attrice.

- Devo averlo dimenticato a Londra, penso che il mio amico John l’abbia trovato e abbia deciso di spedirmelo.

Guardai se ci fosse un biglietto, ma non c’era e neanche un mittente, però… Karen mi fece notare che sulla carta che avevo tolto c’era il timbro delle poste di New York, non di Londra. Che strano.

- Come ha fatto ad attraversare da solo l’oceano? Qualcuno deve averlo portato a New York.

Karen aveva ragione. Quando mi ero imbarcato al porto di Southampton, una volta in cabina, avevo cercato l’anello nella valigia ma sembrava svanito nel nulla. Dunque non aveva viaggiato con me, era rimasto a Londra. Sicuramente era stato John a trovarlo perché solo lui poteva sapere a chi appartenesse. Lo aveva affidato a qualcuno per farlo arrivare in America? Qualcuno che una volta sbarcato lo aveva dato ad un corriere affinché mi fosse consegnato.

D’un tratto mi balenò nella mente un’idea assurda e senza accorgermene mormorai – Candy… Candy è tornata. Il tarlo che mi lacerava l’anima d’improvviso scomparve. Il fatto che Candy potesse trovarsi a New York mi fece letteralmente andare fuori di testa. Volevo vederla, immediatamente!

- Scusate ragazzi ma devo andare!

- Terence che succede?

- Restate pure quanto volete… - gridai mentre uscivo di corsa.

Presi l’auto e andai diretto all’ufficio postale da dove era partito il pacco. Entrai come una furia e cercai in ogni modo di farmi rivelare chi fosse stato a spedirlo. Niente. Non c’era nessun nome, nessuna firma, niente di niente! Descrissi una ragazza bionda, con gli occhi verdi e piena di lentiggini, ma nessuno degli impiegati l’aveva vista. Maledizione!

Andai al porto. L’ultima nave dall’Inghilterra era attraccata la mattina stessa. Dunque Candy poteva essere ancora in città, magari in un albergo lì vicino. Ne girai alcuni senza fortuna. Tornai a casa esausto e disperato, mi attaccai al telefono e iniziai a chiamare tutti gli hotel che conoscevo, ma nessuna Miss Ardlay aveva prenotato una stanza.

- Candy… non puoi essere che tu ad aver portato questo anello da Londra… che cosa avrai pensato? Che io lo abbia comprato per un’altra ragazza, che l’abbia preso per Susanna?!


Capitolo quattordici




New York, febbraio 1919

 

Lo spettacolo teatrale proposto quella sera sul palcoscenico del New Amsterdam Theatre aveva riscosso un notevole successo. Sulla 42nd c’era un gran viavai di auto di lusso, di signore in scintillanti abiti da sera e gentiluomini in frac. Tra le stelle che avevano assistito all’evento c’era anche Miss Susanna Marlowe la quale aveva dato il suo prezioso contributo all’ottima riuscita dello spettacolo, componendo alcuni brani musicali.

Anche la conferenza stampa che seguì la vide decisamente tra i protagonisti. Si trattava infatti della sua prima uscita pubblica dopo il ritorno in patria di Terence Graham e i giornalisti non si sarebbero certo fatti sfuggire una tale occasione per soddisfare la loro brama di novità riguardanti il misterioso attore.

- Miss Marlowe è un piacere rivederla in teatro dopo molto tempo, per lei questa è una grande occasione e il lavoro che ha svolto componendo le musiche per lo spettacolo sta riscuotendo un grande successo – esordì un giornalista del New York Times.

- La ringrazio, in effetti è per me motivo di grande soddisfazione aver potuto lavorare per la Ziegfeld Follies, collaborando con musicisti del calibro di Victor Herbert e Irving Berlin.

- Pensa che questa collaborazione potrà avere un seguito?

- Me lo auguro vivamente!

- Anche perché durante l’ultimo anno si è notata spesso la sua assenza da Broadway, posso chiederle a che cosa sia dovuto?

- Sono molto selettiva nelle mie scelte professionali, stavo solo aspettando l’occasione giusta che finalmente è arrivata con la Ziegfeld.

- Quindi vorrebbe farci credere che le vicende che hanno visto coinvolto Terence Graham non abbiano influito sulla sua assenza dalle scene?

- Non c’è bisogno che vi dica quanto la mancanza di Terence sia stata difficile da sopportare, credo che possiate benissimo immaginarlo, ma cerco sempre di mantenere separata la mia attività professionale dalla vita sentimentale. Ripeto, stavo solo aspettando una proposta alla mia altezza.

- E come mai questa sera Mr. Graham non è qui con lei a condividere il suo successo?

- Terence si sta riprendendo, è molto provato. Penso sappiate che la nave su cui era imbarcato ha subito un duro attacco e lui è stato gravemente ferito. Ha bisogno di riposo in questo momento.

- Dunque non è vera la notizia che Graham avrebbe acquistato un nuovo appartamento dove si sarebbe trasferito appena messo piede a New York.

- Assolutamente falsa! La casa che ha acquistato è una soluzione temporanea, per stare più tranquillo come ho già detto. L’appartamento che condividiamo ormai da due anni è sempre pieno di gente a causa del mio lavoro e noi musicisti siamo soliti fare molta confusione!

Il sorriso di Miss Marlowe illuminò la sala conferenze e sembrò in questo modo terminare l’intervista. Ma dal fondo della stanza giunse improvvisa un’altra domanda.

- Quindi smentisce le voci in merito ad una vostra rottura?

Susanna si voltò verso il giornalista che aveva osato avanzare quell’ipotesi e fulminandolo con i suoi occhi di ghiaccio gli rispose decisa.

- Appena Terence si sarà ripreso, vi assicuro che ci vedrete di nuovo insieme perché niente e nessuno può separarci!

 

 

Ecco, avrei dovuto immaginarlo! Mi davo dell’idiota, avrei dovuto prevedere che in qualche modo Susanna si sarebbe vendicata. Anche se la sua non era una vera e propria vendetta, era molto di più.

Rigiravo ancora nervosamente la rivista tra le mani quando Karen passò a trovarmi.

- L’altra sera, quando hai ricevuto quel pacchetto, ti ho visto così sconvolto… che succede Terence?

- Non li hai letti i giornali?

- Sì…

- Non ce la faccio più Karen, non può continuare a manipolare la realtà in questo modo!

- Mi dispiace dirtelo… ma è anche tua la colpa. Susanna ha sempre lasciato intendere alla stampa che voi due eravate una coppia.

- Io non l’ho mai confermato però!

- Non l’hai neanche mai smentito! Io credo che tu debba farlo, per te stesso soprattutto e poi per Candy, se veramente la ami ancora.

La guardai stupito, Karen aveva capito tutto nonostante io non le avessi mai parlato di Candy.

- Candy… non ne vuole più saperne di me…

- Ma che dici! Era disperata quando ha saputo che saresti andato al fronte.

- Le ho parlato prima di lasciare Londra, almeno ho tentato ma…

- Non è andata come speravi?

- No…

- Ma come puoi pretendere che Candy torni da te se prima non chiarisci la situazione con Susanna! Se ha letto questa intervista che cosa deve pensare?

Karen aveva ragione, dovevo chiudere quella storia una volta per tutte, ma dare in pasto ai giornalisti la mia vita privata era una cosa che non riuscivo a tollerare.

- Che cosa dovrei fare, rilasciare una dichiarazione o fare una conferenza stampa sul mio rapporto con Susanna?! Lo sai che non fa per me. E poi… speravo di non dover arrivare a tanto, speravo che Susanna capisse, che si fosse finalmente resa conto anche lei di quanto sia assurda tutta questa storia!

- Terence, Susanna ha sempre sfruttato la stampa a suo favore, è stata lei la prima a dare in pasto la vostra storia ai giornali e lo ha fatto proprio perché sa che tu non l’avresti mai smentita! Ma adesso è il momento di farlo, oppure intendi continuare a vivere una vita non tua!

- D’accordo. Chi è il migliore in questo momento?

- Joseph Patterson.

- Quello del Daily News?

- Esatto. Anche se ha iniziato da poco, i suoi articoli sono sempre molto obiettivi, mai tendenziosi. Secondo me fa al caso tuo e sarà ben felice di averti in prima pagina.

- Ok… voglio lui.

 

 

*******

 

 

Chicago,  febbraio 1919

 

Ero fuggita come una ladra da New York. Appena sbarcata ero rimasta in città solo il tempo necessario a spedire il pacchetto destinato a Terence. Poi ero salita sul primo treno per Chicago decisa a lasciarmi tutto alle spalle.

Il rientro a casa fu un sollievo. Respirare l’aria di luoghi conosciuti mi faceva sentire protetta e soprattutto rivedere Albert era ciò che più di ogni altra cosa riusciva a tranquillizzarmi. Infatti, dopo aver disfatto le valigie nel mio appartamento vicino l’ospedale, avevo raggiunto Villa Ardlay dove avevo potuto riabbracciare Albert, non prima di ricevere la gelida accoglienza della prozia Elroy che non aveva assolutamente approvato la mia partenza per l’Inghilterra! Da una parte comprendevo che dopo la perdita di Stair, un altro membro della famiglia in zona di guerra non poteva certo farle piacere. Tuttavia ciò che più irritava la prozia era il mio senso di indipendenza e libertà che mal si accordava con il ruolo che una Ardlay era tenuta a sostenere.

Il fraterno abbraccio di Albert fu tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento.

- Candy… credo di essere invecchiato in questi mesi a causa tua! – mi rimproverò bonariamente.

- Io ti trovo in ottima forma invece! Se non sbaglio anche tu sei appena rientrato dal Brasile, il sole di San Paolo ti fa bene evidentemente.

- Non sai quanto ci hai fatto preoccupare e poi le tue lettere non arrivavano mai.

- Lo so, mi dispiace ma era tutto molto complicato e c’era davvero tanto da fare.

- Immagino… per fortuna sei qui sana e salva! Non dirmi che hai intenzione di riprendere subito a lavorare in ospedale!

- Beh no, non subito…

- Allora potresti fermarti qui e raccontarmi un po’ di cose, anch’io ho delle novità.

- Ti ringrazio Albert ma prima ho promesso di trascorre qualche giorno alla Casa di Pony. Parto fra un paio di giorni, ma quando torno sarò tutta per te… sono proprio curiosa di conoscere le tue “novità”!

- D’accordo, non posso competere con Miss Pony e sister Lane, aspetterò!

In effetti non vedevo l’ora di tornare un po’ bambina correndo a perdifiato nei prati di La Porte e magari arrampicandomi sul mio amato albero.

Stranamente, la sera prima della mia partenza, Albert mi invitò a cena a Villa Ardlay. Mi disse che si era liberato da un impegno e che gli avrebbe fatto piacere chiacchierare un po’ con me.

- Oddio Albert non so da quanto tempo non mangiavo così tanto, era tutto squisito.

- Ti ho fatto preparare qualcosa da portare ai bambini.

- Ti ricordo che viaggerò in treno, non farmi prenotare tutto il vagone!

- Non preoccuparti, il resto lo porterò io la prossima volta.

- Hai in programma un viaggio a La Porte?

- Sì, voglio controllare come stanno procedendo i lavori di ristrutturazione del tetto.

- Stai facendo davvero molto per la Casa di Pony, non so davvero come ringraziarti.

- E infatti non devi, lo sai che lo faccio volentieri.

Dopo la cena ci spostammo nello studio di Albert che in quel periodo era la stanza più calda della casa per la presenza di un grande camino costantemente acceso. A La Porte avrei trovato la neve molto probabilmente.

Ci sedemmo davanti al fuoco e restammo per un po’ in silenzio, cullati dal crepitio delle fiamme. D’un tratto Albert si voltò verso di me ed ebbi l’impressione che avesse qualcosa di importante da dirmi, ma che non riuscisse a trovare le parole e questo era molto strano per lui che era sempre capace di dire ciò che pensava. Anch’io lo guardai e con gli occhi cercai di incoraggiarlo.

- Hai saputo di Terence?

Quella domanda mi prese letteralmente in contropiede e riuscii solo a rispondere di si.

- Per fortuna è tornato sano e salvo!

Non sapevo perché Albert avesse intrapreso quella conversazione, ma capii subito che non ero in grado di sostenerla e mi alzai avvicinandomi al fuoco, dandogli le spalle. Evidentemente questo mio gesto gli fece capire che l’argomento Terence era ancora difficile per me da affrontare. Nonostante questo, continuò.

- Pare che sia stato ferito e abbia trascorso diverse settimane in un ospedale militare e poi… a Londra.

- Sei molto informato vedo.

- I giornali ne hanno parlato parecchio, ma dal momento che eri a Londra dovresti saperne più di me…

Albert si interruppe, notando i miei occhi che inevitabilmente si erano fatti lucidi. Ci fu qualche minuto di silenzio. Credevo di riuscire a nascondere quello che era successo, ma con Albert era impossibile e così crollai, raccontandogli ogni cosa: di come c’eravamo incontrati, del fatto che fosse stato arruolato perché mi aveva difeso, dell’angoscia di saperlo in quell’inferno e di come mi fossi presa cura di lui, fino alla sua partenza.

Albert mi aveva ascoltato senza interrompermi, come faceva sempre, osservando ogni mia espressione. Alla fine mi aveva semplicemente abbracciato, lasciandomi sfogare.

- Temevo che fosse accaduto, che vi foste rivisti, ma non immaginavo che dopo tutto questo tempo Terence avesse ancora quest’effetto su di te.

- Non lo credevo nemmeno io, in questi anni pensavo di essere riuscita ad andare avanti con la mia vita. Ce l’ho messa tutta Albert ma…

- Io credo invece che tu ce l’abbia fatta e che questo sia solo un momento. Non deve essere stato facile vederlo partire, lavorando in un ospedale dove toccavi con mano quotidianamente ciò che provoca la guerra. Ne hai fatta di strada in questi anni.

 

Dopo queste parole notai una rivista tra le altre che si trovavano sul tavolino di fianco al divano. Non mi ci volle molte per riconoscere la foto di una Susanna Marlowe a dir poco raggiante. Mi sembrò molto cambiata dall’ultima volta che l’avevo vista, aveva ancora l’aspetto di una donna elegante e raffinata, ma molto più sicura di sé. Durante la conferenza stampa seguita all’ultimo spettacolo a cui aveva collaborato, aveva risposto ad alcune domande in merito al suo lavoro di compositrice ma anche a proposito del suo rapporto con l’attore Terence Graham da poco rientrato negli Stati Uniti. Non fu semplice leggere quelle parole:

 

“Appena Terence si sarà ripreso, vi assicuro che ci vedrete di nuovo insieme perché niente e nessuno può separarci!”


Capitolo quindici





New York, marzo 1919

 

Mi sentivo nervoso. Non era la prima volta che intervistavo personaggi illustri, ma non so perché Graham mi metteva particolarmente in agitazione. Forse mi stavo facendo condizionare dal fatto che venisse descritto spesso come un uomo complicato e a volte insopportabile. Non mi era mai capitato di incontrarlo di persona, ma l’avevo visto interpretare Amleto prima che partisse per l’Inghilterra e ne ero rimasto estasiato. Adesso però erano accadute molte cose. Mi chiedevo come e quanto il periodo trascorso sotto le armi avesse potuto cambiarlo ed ero curioso di scoprirlo.

Davanti al portone del suo appartamento ebbi ancora un attimo di timore, fino a quando non fu proprio lui in persona ad aprirmi. Mi aspettavo quantomeno un domestico e rimasi sorpreso. Graham, elegantissimo nel suo abito scuro, con un volto che mi apparve leggermente teso sotto un ciuffo ribelle di capelli che sfuggiva alla brillantina, mi rivolse un cordiale buon pomeriggio e mi invitò ad entrare. Alle sue spalle apparve dopo pochi istanti un cane, un pastore tedesco a pelo lungo, silenzioso e schivo, con uno sguardo penetrante molto simile a quello del padrone. Senza ricevere alcun ordine, si fermò accanto a lui, fissandomi. Non avevo particolare simpatia per quel tipo di animale, per cui esitai a seguire Graham che invece mi invitava a farlo.

- Non abbia timore, è molto buona.

Percorremmo un lungo corridoio e, una volta entrati in un grande salone, con un gesto della mano appena accennato l’attore indicò all’animale dove posizionarsi. Lo splendido esemplare andò a sdraiarsi sotto al pianoforte che si trovava sul fondo della stanza, dalla parte opposta alla poltrona sulla quale Graham mi fece accomodare, mentre lui si sedette di fronte dopo aver emesso un gran sospiro. Anche lui era nervoso.

La luce calda del tardo pomeriggio filtrava dalle alte vetrate che illuminavano la stanza, molto accogliente. Facendo scorrere i miei occhi intorno venni attratto da una grande libreria dove faceva bella mostra di sé l’intera collezione delle opere di Shakespeare, insieme a molti altri titoli di letteratura inglese, saggi e cataloghi di mostre d’arte. C’era poi una sezione dedicata alla musica, con molti dischi sia classici che moderni e un ricco repertorio di spartiti.

- Vogliamo iniziare? – mi chiese Graham d’un tratto facendomi sobbalzare.

La sua voce bassa vibrò riempiendo la stanza. Mi resi conto in quel momento che ascoltarla così da vicino era un grande privilegio e capii come in teatro riuscisse a catturare il pubblico come fosse stato vittima di un incantesimo. Dopo qualche domanda per fortuna le mie orecchie si abituarono altrimenti non sarei riuscito di sicuro a portare a termine l’intervista.

Avevamo concordato che Graham avrebbe conosciuto in anticipo le domande a cui avrebbe dovuto rispondere. Le aveva già ricevute ma mi chiese di nuovo di poterle visionare. Gli passai il mio taccuino e lui restò in silenzio qualche minuto, scorrendo con sguardo attento, la lista che avevo scritto. Dal tavolo accanto alla poltrona prese una penna e tracciò una riga sulla seconda pagina.

- Questa no – asserì restituendomi il taccuino.

Aveva cancellato l’unica domanda che riguardava la sua famiglia d’origine, il padre in particolare, il Duca di Granchester con cui si diceva non avesse più rapporti.

 

- Innanzitutto vorrei chiederle come sta.

- Molto bene, grazie.

- È rientrato in America da circa due mesi, ma non ha ancora ripreso a recitare. Il suo pubblico la attende con ansia, possiamo sapere quando avremo il piacere di rivederla sul palcoscenico?

- Mi sto dedicando ad un nuovo copione che verrà portato in scena il prossimo autunno. Non posso dirvi di più.

- Ogni personaggio che ha interpretato ha sempre riscosso un enorme successo, il suo Amleto viene definito addirittura come il migliore dell’ultimo decennio. Come fa a trovare la giusta chiave di interpretazione ogni volta?

- Quando ho tra le mani un copione comincio a pensare a cosa potrei farci. Immagino le scenografie, le musiche, i colori, persino gli odori. È come innamorarsi e non sai spiegartene il motivo.

- Si innamora sempre dei suoi personaggi? Persino del sanguinario Macbeth ad esempio?

- Certamente, ma non è mio il merito, bensì di Shakespeare. Vede lui è riuscito a sviscerare tutti gli aspetti dell’animo umano, persino quelli più atroci e inconfessabili, senza giudicare mai, ma solo cercando di capire. È questo che mi fa entrare in contatto con ogni personaggio, persino con Machbet, è la necessità di capire perché l’uomo sia capace di determinate azioni, alcune permeate di profondo amore, altre di assoluto odio.

- La sua recente esperienza sotto le armi deve averle fatto sperimentare direttamente sul campo cosa significhi odiare. Che cosa può dirci in proposito?

- Qualcuno ha detto “se vuoi davvero comprendere l’uomo, scatena una guerra”, per la mia modesta esperienza mi sento di sottoscrivere quest’affermazione. In condizioni estreme come quelle di una guerra,  l’uomo è costretto a mostrare l’essenza di se stesso, che può essere molto brutale o assolutamente amorevole, sta ad ognuno di noi scegliere da che parte stare, anche se non è facile perché non sempre si è liberi di farlo senza rischiare la propria vita.

- Il Graham di oggi è diverso da quello che è partito per l’Inghilterra per fare l’attore? È migliore?

- Diverso assolutamente sì, perché anch’io ho conosciuto di più me stesso, scoprendo cose di me che non credevo di possedere. Migliore… non saprei.

- È stato imbarcato per alcuni mesi sull’Invincible, un incrociatore della marina britannica, ed è stato ferito. Come ricorda quei momenti?

- Sono stato privo di coscienza per un po’ e i miei ricordi sono piuttosto confusi. Quando mi sono svegliato non riuscivo a vedere niente, ho avuto una perdita temporanea della vista. Sono stato ricoverato in un ospedale militare e poi trasferito a Londra dove pian piano ho recuperato la vista e così, dopo l’armistizio, sono potuto rientrare in America.

 

L’intervista procedeva in maniera molto tranquilla e seria. Graham mi appariva decisamente concentrato su ogni singola parola che pronunciava, forse anche troppo. Morivo dalla voglia di stuzzicarlo un po’, ma non ero sicuro di come avrebbe reagito. Speravo di aver conquistato la sua fiducia, ma avrebbe anche potuto mandarmi a quel paese e annullare l’intervista. Ma quando mi sarebbe capitata di nuovo una tale occasione? Dovevo rischiare.

 

- Molti ancora non si spiegano come sia stato possibile che Terence Graham, attore ormai di fama internazionale, oltretutto da anni residente a New York, venisse coinvolto in questa guerra, arruolato come tenente nella marina militare britannica. Sono state diffuse le voci più disparate tra le quali quella che più ha trovato consensi è stata che all’origine di tutto ci sia una donna.

 

Lo vidi abbassare il viso e sorridere leggermente, sfiorandosi il mento con la punta delle dita. Poi tornò a guardarmi negli occhi, appoggiandosi allo schienale della poltrona.

 

- Secondo lei io avrei bisogno di una guerra per conquistare una donna?

- In effetti è un po’ difficile da credere!... Una donna invece che cosa deve fare per conquistare Terence Graham?

- Assolutamente nulla! In realtà nessuno conquista nessuno, non esistono strategie, ma solo incontri di anime che si riconoscono e che, qualsiasi cosa accada, resteranno legate per sempre!

 

Era strabiliante il modo in cui era capace di passare da una battuta divertente ad un pensiero molto intimo e profondo. Graham poteva essere anche un uomo pieno di difetti, lo si definiva irascibile, stravagante, scontroso, un vero misantropo, ma era assolutamente vero, nel bene e nel male, proprio come i protagonisti delle tragedie di Shakespeare che interpretava in maniera magistrale.

 

- So che non ama parlare della sua vita privata, ma in queste ultime settimane sono circolate varie indiscrezioni in merito al suo rapporto con la collega Susanna Marlowe che, in una recente intervista, ha precisato che il vostro attuale allontanamento dipende solamente dal fatto che lei ha bisogno di riposo e tranquillità. Secondo Miss Marlowe dunque non c’è stata alcuna rottura tra voi. Vuole commentare le sue parole?

 

Graham si alzò in piedi, cosa che fece immediatamente reagire il cane che sollevò il muso, drizzando le orecchie appuntite. Prese il portasigarette, ne accese una e ne offrì un’altra a me. Interpretai quel gesto, fatto in maniera tanto naturale e direi quasi amichevole, come se fosse sul punto di farmi una confidenza. Tornò a sedersi.

 

- Miss Marlowe ha perfettamente ragione, non c’è stata alcuna rottura tra noi. Vede Joseph una rottura presuppone un legame, il rapporto di amicizia che mi lega a Susanna non ha subito cambiamenti.

- Non mi risulta che Miss Marlowe abbia parlato di semplice amicizia.

- Ah no? E di che cosa? – mi chiese lasciando scorrere tra le labbra il fumo della sigaretta.

- Beh ha lasciato intendere che tra voi ci fosse da tempo qualcosa di più, dal momento che fino a poco tempo fa vivevate sotto lo stesso tetto.

- Ha “lasciato intendere”? A me non piace lasciar intendere per cui parlerò molto chiaramente: sono rimasto vicino a Susanna in segno di riconoscenza, come amico e nulla di più. L’ho aiutata come ho potuto e ci sarò se lei avrà ancora bisogno di me. Questo è tutto.

 

Rimasi sorpreso da questa dichiarazione che non mi aspettavo, ma la fermezza con cui Graham aveva pronunciato quelle parole non lasciava spazio a dubbi o interpretazioni.

 

- Ciò che ha appena affermato solleverà un bel putiferio, se ne rende conto?

- Bene, lei e i suoi colleghi dovreste essere contenti, le vendite dei giornali con Graham in prima pagina schizzeranno alle stelle! Per quanto mi riguarda invece finisce qui, questa è la sola intervista che intendo rilasciare e soprattutto non tornerò più a parlare della mia vita privata. La ringrazio per la disponibilità Mr. Patterson.

- È stato un piacere!

 

Dopodiché mi fece strada verso l’uscita, seguito dal fedele animale.

- Come si chiama?

- Juliet.

- Avrei dovuto immaginarlo… sembra proprio aver trovato il suo Romeo.


Capitolo sedici





New York, marzo 1919

 

Patterson aveva proprio ragione, l’intervista che gli avevo rilasciato stava suscitando molto clamore e la stampa aveva iniziato di nuovo a perseguitarmi e non solo la stampa. Qualche giorno dopo la pubblicazione sul Daily News avevo ricevuto la visita di Mrs Marlowe, la madre di Susanna.

Era entrata come una furia, blaterando ogni sorta di cattiveria verso di me, cosa che del resto faceva spesso anche prima. Per lei qualsiasi mio comportamento era sempre sbagliato o comunque non sufficiente a ripagare quanto fatto per me dalla figlia. Erano continue lamentele che riuscivo a sopportare solo fuggendo in teatro.

Anche quel giorno tentò di abusare come al solito del mio buon cuore, facendo leva soprattutto sul senso di colpa e sul dovere che secondo lei mi avrebbe legato a Susanna per sempre. La sua equazione era semplice: Susanna mi aveva salvato la vita, io mi sarei dovuto trovare al suo posto, e questo mi obbligava a starle accanto.

C’era un piccolo particolare che Mrs Marlowe continuava imperterrita ad ignorare, ma che ormai mi era del tutto chiaro: io non amavo Susanna e non l’avrei mai amata, di conseguenza starle accanto avrebbe reso infelice non solo me ma anche lei la quale meritava un uomo che la ricambiasse.

Quella sera, davanti alla madre di Susanna, non esitai, non mi piegai e le dissi chiaramente che non sarei più tornato in quella casa se non per fare visita alla figlia come amico, se lei avesse voluto.

La signora andò in escandescenza, arrivando persino a minacciarmi e a dirmi che il debole cuore di Susanna non avrebbe retto a questa mia decisione, ma non avevo intenzione di tornare indietro. Sentivo di aver fatto tutto quello che potevo, non sarei mai riuscito ad andare oltre anche perché sarebbe stato un grosso errore, ne ero certo. Quando se ne andò mi sentii sollevato, anzi, più passavano i giorni e più aumentava la mia sensazione di leggerezza e di libertà che da tanto tempo non riuscivo ad assaporare.

Anche mia madre venne a trovarmi. Appena entrò lessi nei suoi occhi lo stesso sollievo che lei vide nei miei.

- Finalmente Terry, finalmente! – esclamò commossa.

Mi disse che quando aveva letto la mia intervista stentava a crederci e aveva temuto che il giornalista avesse travisato le mie parole. La tranquillizzai dicendole che era tutto vero.

- Da quando sei tornato dall’Inghilterra mi sembri molto cambiato, evidentemente quello che hai dovuto passare non poteva lasciarti indifferente.

- È così: nessuno torna dalla guerra com’era partito. Ma non è stato solo questo a cambiarmi, ho incontrato qualcuno che mi ha fatto riflettere sulla mia vita.

- Di chi stai parlando? Qualche tuo compagno forse?

- No… ho incontrato il Duca.

- Richard? – mi chiese incredula, sgranando i grandi occhi blu.

- Sì.

- E come è successo?

Le raccontai come lui mi avesse cercato, una volta rientrato a Londra, e quello che mi aveva detto.

- Credo che sia un po’ tardi per ammettere finalmente di aver sbagliato tutto. Perdonami figliolo, sarei felice se tu riuscissi ad avere un rapporto sereno con tuo padre, ma conoscendolo faccio fatica a credere che si sia davvero pentito del suo comportamento.

- Questo non lo so, infatti non ha neanche provato a chiedermi di perdonarlo… mi ha solo pregato di non commettere i suoi stessi errori, perché secondo lui sto sbagliando. Ho avuto l’impressione che sapesse molte cose su di me, nonostante non ci vedessimo da diversi anni.

Da come la guardai mia madre comprese che nutrivo qualche sospetto, infatti.

- Da quando hai abbandonato la scuola, ogni tanto mi ha scritto, chiedendomi di te…

- Perché non me lo hai mai detto?

- Richard non voleva e, nonostante io non lo avessi perdonato, pensai che comunque era tuo padre e che per voi potesse esserci ancora la possibilità di ritrovarvi. Speravo che un giorno o l’altro avrebbe trovato il coraggio di contattarti, c’è voluta una guerra per smuoverlo!

- In realtà non è stata la guerra, ma una persona che gli ha chiesto di aiutarmi.

- Una persona? Deve avere una grande influenza su di lui allora!

- Pare di sì!

- Di chi si tratta?

- Di Candy.

Eleanor rimase senza parole, chissà perché capì subito di chi stessi parlando.

- Candy è a Londra?

- Sì… almeno lo era, adesso dovrebbe essere tornata a Chicago.

- Vi siete incontrati?

- Sì, ma è una lunga storia e…

- Lo so, non ti va di parlarne, però… tuo padre si riferiva a lei quando ti ha pregato di non commettere i suoi stessi errori?

- Credo di sì.

- Lo ascolterai? – mi chiese quasi con le lacrime agli occhi.

Non mi aveva più chiesto niente di Candy dopo la nostra separazione ed io non ne parlavo mai, ma evidentemente i miei silenzi gridavano ciò che solo una madre può comprendere.

- Ci sto provando – le risposi, pensando che comunque non sarebbe dipeso solo da me e, visto ciò che Candy mi aveva detto a Londra, prima della mia partenza, non avevo al momento grandi aspettative.

- C’è una cosa che devo dirti e che forse avrei dovuto dirti a suo tempo, ma temevo che tu ti saresti arrabbiato o peggio ancora ne saresti rimasto deluso. Ho scritto a Candy…

- Cos’hai fatto? Perché?

- Prima del tuo debutto con l’Amleto, l’ho invitata a teatro.

- Sei impazzita forse!

- Aspetta… lasciami finire. Vedevo quanto soffrivi e di sicuro lei non stava meglio… quella notte quando vi siete separati, eravate entrambi sconvolti per tutto quello che era successo, ero convinta che se aveste avuto modo di parlarvi di nuovo magari…

- Ma lei non ha accettato l’invito, vero?

- No, però mi ha risposto dicendo che non se la sentiva, di sicuro avrebbe voluto almeno salutarti e non poteva farlo.

- Tutto per quella promessa, per quella stupida promessa! – gridai, mentre sentivo ribollire il sangue nelle vene. Ma non potevo scaricare tutta la colpa su di lei, l’avevo lasciata andare, chiedendole di essere felice. Entrambi non avevamo avuto la forza di credere nei nostri sentimenti, forse non erano abbastanza forti? Eppure, nonostante gli anni trascorsi lontani per me esisteva ancora solo lei.

 

Chicago, marzo 1919

 

Mi svegliai di soprassalto, con l’immagine di Susanna sorridente davanti agli occhi e quella frase che lei aveva pronunciato… “niente e nessuno ci separerà mai” che continuava a ronzarmi nella testa. Rimasi nel letto, scomparendo sotto le coperte. Con gli occhi chiusi ripensavo a tutto quello che era accaduto a Londra, dalla prima volta in cui lo avevo rivisto all’istituto, quando poi mi aveva difeso da Coventry ed io mi ero arrabbiata con lui, lo strazio della sua partenza e quel bacio leggero alla stazione di cui mi sembrava di avvertire ancora il calore sulle labbra, prendermi cura di lui in ospedale…

Avevo promesso a Susanna che non avrei mai più rivisto Terence, ma non avevo potuto evitare quell’incontro voluto dal destino. Molte volte era accaduto che ci eravamo cercati senza trovarci, mancandoci per un soffio, mentre quando entrambi probabilmente pensavamo di essere andati avanti, senza volerlo le nostre strade si erano incrociate di nuovo ed era bastato poco per avvertire quella naturale sintonia che c’era stata tra noi fin dai tempi della St. Paul School.

E adesso? Sarei riuscita a cancellare tutto? Avrei dovuto ringraziare Susanna per quell’intervista che metteva le cose in chiaro, però… però lui non era lì con lei. Chissà se aveva capito chi aveva portato l’anello a New York…

Feci un grande sforzo per alzarmi dal letto e preparare la valigia. Un treno per La Porte mi aspettava tra poche ore e avevo un sacco di cose da preparare. Avevo appena terminato di fare colazione quando squillò il telefono.

- Annie, ma dove sei? Credevo di trovarti a Chicago…

- Ero fuori città, mi dispiace molto, ma non vedo l’ora di riabbracciarti…

- Purtroppo sono di nuovo in partenza, vado a La Porte per qualche giorno…

- Allora ti raggiungo lì, che ne dici?

- Oh Annie dici sul serio? Sarebbe fantastico, ho mille cose da raccontarti!

- Penso di arrivare domani, mi raccomando aspettami per mangiare i marshmallows di Miss Pony!

- Non sarà facile, ma cercherò di trattenermi!

Scoppiammo entrambe a ridere. Mi mancavano quelle risate!

Poche ore di treno e avrei rivisto la mia adorata collina… ed ecco ancora lui. Perché ogni mio pensiero portava sempre a Terence! L’ultima volta che ero salita su quella collina ricoperta di neve, avevo visto le sue impronte cancellate dal vento. Avevo gridato il suo nome a squarciagola ma solo l’eco era tornata indietro. Le lacrime mi bruciavano il viso gelato e mi davo della stupida perché avevo perso troppo tempo, camminando lentamente, se fossi arrivata pochi minuti prima ti avrei trovato…

Il solo pensiero che tu fossi alla Casa di Pony, nei luoghi in cui ero cresciuta, a parlare con Miss Pony e sister Lane, che tu fossi salito sulla mia collina di cui ti avevo parlato così tante volte, mi faceva scoppiare il cuore di gioia. La delusione di non trovarti fu altrettanto travolgente, ma all’epoca ero sicura che ci saremmo rivisti un giorno. Adesso invece.

Sul treno tentai di distrarmi leggendo un libro, Raimbow Valley di Lucy Maud Montgomery, il settimo volume della saga di Anne of Green Gables di cui non me ne ero persa neanche uno. Anna e Gilbert erano sposati ormai e con ben cinque figli, ma la loro storia era iniziata con molte difficoltà ai tempi della scuola e… anch’io ne sapevo qualcosa! Mi rivedevo molto in quella ragazzina un po’ strana agli occhi di tutti che Gilbert amava tormentare, prendendola in giro per i suoi ridicoli capelli rossi e per le… lentiggini…

Chiusi il libro di colpo e lo rimisi nella borsa, tentando inutilmente di scacciare i pensieri che ormai avevano preso il sopravvento. Tornarono prepotenti i ricordi del nostro primo incontro, le sue lacrime e poi la sua risata improvvisa e quel modo di prendermi in giro da subito come se ci conoscessimo da chissà quanto tempo! Erano trascorsi molti anni eppure le immagini scorrevano nitide davanti ai miei occhi e le stesse sensazioni provate quel 31 dicembre del 1912 mi aggredivano l’anima lasciandola a brandelli.

A New York le nostre strade si erano divise, avevamo deciso di separarci ed entrambi avevamo tenuto fede a questa scelta, ma dimenticare ciò che avevamo vissuto e condiviso non sarebbe mai stato possibile, ormai ne ero certa. Avrei dovuto convivere fino alla fine dei miei giorni con quei dolci e allo stesso tempo crudeli ricordi.


Capitolo diciassette

 




La Porte, marzo 1919

Ogni volta che il mio cuore aveva bisogno di essere aggiustato, tornavo alla Casa di Pony, qui sapevo di poter ritrovare il mio equilibrio e vedere di nuovo le cose con chiarezza. Era questo il potere dell’amore con cui Miss Pony e suor Lane mi avevano cresciuta e che ancora aveva su di me l’effetto di un balsamo magico.

In tarda mattinata ero scesa alla stazione del paese e mi ero incamminata verso casa. Mi aveva accolto un sole splendente nonostante la neve caduta abbondante nei giorni precedenti. L’edifico era in fase di ristrutturazione. Albert si era occupato di tutto, dalla sistemazione del tetto al restauro della piccola cappella dove ogni domenica si celebrava messa. Anche le camere da letto erano state ampliate, c’era sempre bisogno di più spazio. L’istituto ospitava in quel momento sei bambini e nove bambine, di età differenti, dai 4 agli 8/9 anni.

I bambini mi accolsero entusiasti insieme a Miss Pony e suor Lane che mi abbracciarono forte prima di parlare, come facevano sempre.

- Candy siamo state così in pena, ma ciò che hai fatto è un’opera di grande carità, sono sicura che il Signore ti ricompenserà – mormorò suor Lane guardandomi con immensa tenerezza.

- Sarai affamata e infreddolita… ti ho preparato la cioccolata che ti piace tanto! – esclamò Miss Pony che scrutandomi si era già accorta evidentemente della mia eccessiva magrezza.

Davanti alla cioccolata e al camino acceso raccontai loro un po’ di cose sulla mia avventura londinese, evitando di parlare delle mille difficoltà che avevo dovuto affrontare e soprattutto di Terence.

Nel tardo pomeriggio arrivò anche Annie. Non ci vedevamo da più di un anno, la trovai ancora più bella e mi confidò immediatamente che alla fine dell’estate ci sarebbe stato un matrimonio.

- Lo sapevo già!

- Chi te lo ha detto?

- Nessuno ma… l’anello che indossi brilla così tanto che quasi ho perso la vista quando mi hai salutata!

- Già… Archie ha fatto una follia per questo gioiello!

- Sono così felice per voi!

Pur condividendo sinceramente la gioia incontenibile di Annie, non potei evitare che un velo di tristezza smorzasse il mio sorriso e distolsi lo sguardo verso la finestra. Lei evidentemente se ne accorse e mi propose di uscire e fare una passeggiata, prima che facesse buio.

Uscimmo nella neve, facemmo il giro della casa e senza dire niente ci incamminammo verso la collina. I ricordi della nostra infanzia comparivano in ogni angolo: la fontanella dove ci divertivamo a bagnarci, le rocce dietro cui ci nascondevamo quando avevamo fatto qualche marachella, il pendio dove in inverno scivolavamo giù con la slitta… tutto sembrò riempirsi delle nostre risate, ma anche delle lacrime di quando Annie venne adottata dai Brighton.

Arrivate sulla collina ci appoggiammo al grande tronco, ammirando il paesaggio che si stendeva ai nostri piedi.

- Adesso però raccontami qualcosa di te, mi hai detto che sono successe tante cose…

- È vero… non so da dove cominciare…

Raccontai ad Annie dell’orfanotrofio e dell’idea che mi era venuta di chiamarlo Pony’s Hill, pensando che questo nome avrebbe portato fortuna ai piccoli ospiti. Le parlai del lavoro in ospedale e di tutta la sofferenza che avevo visto e a cui non ci si abitua mai, nemmeno dopo tanto tempo.

- Quando sei partita avrei tanto desiderato che tu cambiassi idea, ma sapevo che non lo avresti fatto testarda come sei! Avevi bisogno di cambiare aria, spero che questa esperienza ti sia servita a vedere meglio il tuo futuro.

Le parole di Annie mi colpirono molto e restai in silenzio. Non sapevo cosa dire.

- Che cosa farai adesso? Tornerai a lavorare in ospedale, a Chicago?

- Beh non lo so, ma ho qualche settimana di vacanza e le userò anche per riflettere su cosa voglio fare, non so se Chicago sia il posto giusto per me.

- Non mi dirai che hai intenzione di partire di nuovo?

- Ci sto pensando in effetti… ma non prima del tuo matrimonio stai tranquilla, non me lo perderei per niente al mondo!

- Mi farai da damigella naturalmente!

- Solo se non pretenderai di farmi indossare uno di quegli orribili abiti color lavanda!

- D’accordo!

Ridemmo di nuovo come due bambine poi all’improvviso…

- E tu?

- Io cosa?

- Non hai intenzione di sposarti?

- Beh prima dovrei innamorarmi! – esclamai cercando di scherzare.

- E non lo sei?

Annie mi guardò dritta in faccia e io fui sul punto di rispondere di sì.

- No… certo che no.

- Allora andare a Londra non è servito a niente?

- Che vuoi dire?

- Ho accettato che tu partissi sperando che dopo saresti tornata la Candy di sempre, ma ho l’impressione che non sia così e mi dispiace molto. Vorrei tanto aiutarti, dimmi cosa posso fare?

- Vedi Annie a Londra… sono accadute delle cose che…

Non riuscii ad andare avanti. Per fortuna uno dei bambini più grandicelli venne a chiamarci perché era quasi ora di cena. Si stava facendo notte, tornammo verso la casa le cui piccole finestre illuminate ci riempirono di nostalgia.

Quando ci ritirammo nella stanza che era stata preparata per noi, ci sembrò davvero di tornare bambine, quando aspettavamo che i più piccoli dormissero per sgattaiolare fuori e rubacchiare qualche biscotto.

- Ti ricordi Candy quella volta che prendemmo il liquore di Miss Pony per fare un pic-nic e quasi ci ubriacammo?

- Oddio Annie… Miss Pony andò su tutte le furie, credo di non averla mai vista tanto arrabbiata in vita mia… però ci siamo divertite!

Ci sdraiammo sul letto abbastanza grande da poterci stare in due. Faceva freddo e ci accomodammo vicine sotto la pesante coperta. C’era un assoluto silenzio a cui non ero più abituata.

- A Londra c’erano sempre dei rumori in sottofondo, a volte anche delle esplosioni che mi facevano spaventare, era difficile riuscire a dormire tranquillamente, per fortuna spesso la stanchezza mi faceva crollare.

Annie si voltò verso di me. La flebile luce di una candela che avevamo lasciato accesa le illuminava il viso che per certi tratti sembrava ancora quello di una bambina. Mi sorrise e capii che non avevo scampo.

- Vuoi sapere che cosa è accaduto a Londra vero?

- Sono curiosa ma ho anche l’impressione che tu abbia bisogno di parlarne, sbaglio?

- A Londra ho incontrato… Terence.

- Com’è successo? – mi chiese quasi senza fiato.

Le raccontai ogni cosa. Lei mi ascoltò senza interrompermi e quando ebbi finito mormorò...

- Adesso è tutto chiaro…

Le dissi anche dell’anello che lui aveva acquistato e dell’intervista di Susanna che avevo letto sui giornali qualche giorno fa.

- Mi sembra di averlo perso una seconda volta ma… come hai detto tu, è tutto chiaro e credo che presto si sposerà. È così che doveva andare. Quella notte a New York abbiamo preso la decisione che ritenevamo più giusta e non è possibile tornare indietro.

- Da quello che mi hai raccontato non mi sembra che Terence la pensi come te.

- Beh naturalmente rivedersi non è stato semplice e forse abbiamo creduto di poter… ma non doveva accadere, non dovevamo vederci più, l’avevo promesso a Susanna.

- Ho sempre cercato di rispettare la vostra decisione, ma non l’ho mai accettata del tutto lo sai e ancora oggi sono convinta che non sia stata la migliore, per nessuno, neanche per Susanna.

- Perché dici questo?

- Credi che lei sia felice di avere accanto un uomo che non la ama e che probabilmente non l’amerà mai?

- Annie… ti prego, io non credo che sia così, Terence è capace di donare amore come neanche immagini!

- Ne sono sicura, ma alla donna che ama!

- Quella donna non posso essere io…  ormai…

- Candy quando vi siete separati eravate due ragazzini, molto spaventati da quello che era accaduto, ma adesso è diverso e non puoi cancellare ciò che provi per lui, hai tentato in ogni modo ma non ci sei riuscita e nemmeno continuare a fuggire da una parte all’altra del mondo ti aiuterà a farlo.

- Devo andare avanti Annie, in qualche modo, con la mia vita, come lui sta facendo con la sua.

- Hai ragione, Terence sta andando avanti! Hai letto l’intervista che ha rilasciato ieri al Daily News?

- No e credo che non lo farò.

- Dovresti leggerla invece.

- Beh… forse domani… adesso dormiamo…

- Ce l’ho in valigia.

Guardai Annie trattenendo il respiro. Lei scese dal letto e prese dalla sua borsa la copia del giornale. Accese la lampada sul comodino e… una foto di Terence Graham apparve in prima pagina col titolo “The soldier actor”.

- Coraggio Candy.

Presi il giornale e lo aprii alla pagina dove c’era l’articolo che lo riguardava. Iniziai a leggere e ad ogni parola mi sembrava di udire la sua voce. Mi tremavano le mani, ma cercai di andare avanti. Riuscii persino a sorridere quando lessi che non aveva bisogno di una guerra per conquistare una donna. La passione con cui parlava del teatro mi ricordò quando scoprii che aveva sottolineato le frasi più belle sul libro di Romeo e Giulietta della madre; cercò di spiegarmi che cosa significasse per lui, ricordavo precisamente l’espressione dolce e struggente del suo viso. Dovetti fermarmi però quando il giornalista gli chiese di Susanna. Annie mi incoraggiò a continuare. Così lessi con difficoltà perché i miei occhi si stavano facendo caldi:

 

sono rimasto vicino a Susanna in segno di riconoscenza, come amico e nulla di più. L’ho aiutata come ho potuto e ci sarò se lei avrà ancora bisogno di me. Questo è tutto.”

 

Queste erano state le sue parole che smentivano chiaramente quanto affermato da Susanna pochi giorni prima. Era evidente che Terence aveva rilasciato questa intervista proprio in risposta a quella della Marlowe. Immaginavo quanto gli fosse costato, lui che non sopportava alcuna intromissione nella sua vita privata neanche da parte della madre. Mi chiedevo perché si fosse deciso allora a fare una cosa del genere e non osavo credere che l’avesse fatto per me.

- Per quale altro motivo avrebbe dovuto farlo Candy, non capisci? In questo modo vuole farti capire che le cose sono diverse adesso, che non è più un ragazzino e non è disposto a sacrificare la sua vita in un rapporto falso che si è basato fino ad ora solo su un ricatto morale.

- A Londra mi ha detto chiaramente che ha fatto tutto quello che doveva e che poteva, ma non può andare oltre, significherebbe tradire se stesso. Credi che Susanna sappia che ci siamo visti?

- Questo non lo so, ma di sicuro tra loro è successo qualcosa e, conoscendo Terence, secondo me prima di parlare ai giornali ha parlato con lei.

- Che cosa devo fare adesso?

- Non posso dirtelo io, ma vorrei che almeno tu provassi a riflettere su ciò che provi, pensando solo a te e a nessun altro per una volta. Vorrei che tu ti sentissi libera finalmente di essere te stessa. Prenditi qualche giorno per farlo, resta qui, la Casa di Pony ti aiuterà.


Capitolo diciotto







La Porte, marzo 1919

Nonostante la collina fosse ancora ricoperta di un candido manto nevoso, sotto la grande quercia iniziavano a fare capolino i primi bucaneve. Le tenere corolle bianche si facevano strada lentamente tra la neve ed emergevano come tenaci messaggeri dell’imminente primavera. Guardandosi intorno non si poteva credere che anche quest’anno la stagione più calda sarebbe arrivata e la natura sarebbe tornata a splendere rigogliosa. Ma i bucaneve ci spronavano ad avere fiducia, a guardare oltre il gelo di quei mesi.

Mi ero svegliata molto presto quella mattina. Mi piaceva passeggiare quando intorno era ancora tutto avvolto nel silenzio. Capitava di incontrare un alce e qualche coniglio che si allontanava appena fiutava il mio arrivo, lasciando piccole impronte sulla neve ancora intatta. Salire fino in cima alla collina mi riscaldava il corpo ed anche il cuore.

Erano trascorsi tre giorni da quando Annie mi aveva raggiunto ed avevamo parlato, poi era tornata a Chicago. Io non facevo altro che pensare alle parole di Terence riguardo al suo rapporto con Susanna. Se si era esposto così tanto, parlando solo di una semplice amicizia e di riconoscenza, lo aveva fatto per un motivo, di sicuro per ribattere all’intervista di Susanna che invece lasciava intendere che tra loro ci fosse ben altro, e forse anche per mandare un messaggio a me…

Appoggiata al tronco di papà albero riflettevo su quello che avrei dovuto fare. Annie mi aveva pregato di pensare per una volta solo a me stessa, a ciò che sentivo e desideravo.

- Che cosa farei in questo momento… se dipendesse solo da me, se potessi semplicemente seguire ciò che mi dice il cuore? – mi chiedevo senza avere il coraggio di rispondere a questa domanda. In realtà la risposta la conoscevo bene!

Il solito gruppetto di conigli selvatici cui davo da mangiare ogni mattina, fece capolino da dietro una roccia. Mi abbassai per spargere sul terreno, che avevo liberato dalla neve, alcuni mazzetti di fieno. Poi feci qualche passo indietro per lasciare che si avvicinassero. D’improvviso però schizzarono via e scomparvero, come spaventati da qualcosa o da qualcuno.

Mi guardai intorno, ma non vidi nessuno vicino. Dopo qualche istante udii l’abbaiare di un cane, poteva esserci un cacciatore in giro. Doveva essere stato quello a spaventare i conigli. Lungo il pendio della collina vidi spuntare due grandi orecchie, poi il muso e infine la figura intera di un grosso cane che correva nella mia direzione, affondando le zampe nella neve. Una volta arrivato in cima, mi si avvicinò mugolando, per nulla spaventato.

- E tu da dove salti fuori? Ti sei perso?

L’animale continuava a gironzolarmi intorno, alla fine si fermò ai piedi dell’albero e notai che aveva un collare con su scritto qualcosa.

- Juliet… è il tuo nome o quello della tua padrona?

Lessi ancora.

- New York 7th Avenue… ma questo indirizzo io lo conosco… e tu non puoi essere arrivata fin qui da sola!

Alzai lo sguardo ma sembrava proprio non esserci nessuno. D’un tratto il cane si voltò e cominciò a correre nella direzione da dove era arrivato.

- Aspetta… non te ne andare! – gridai ma sembrò non ascoltarmi.

Allora la seguii e scendendo di qualche metro mi accorsi che evidentemente aveva trovato il proprietario e, nella foga della corsa, doveva averlo fatto cadere a terra, finendogli addosso. Fu quando si mise in ginocchio nella neve, continuando ad accarezzare l’animale, che lo vidi. E lui vide me.

Rimase ancora un po’ in ginocchio, poi si alzò senza curarsi della neve che aveva addosso. Il cane tornò verso di me e lui lo seguì, risalendo il pendio, lentamente. Io ero pietrificata.

- Ciao Candy, come stai?

- Che… che cosa ci fai qui? – balbettai.

- Saliamo insieme? – mi chiese con un leggero sorriso sulle labbra.

Percorremmo fianco a fianco, in silenzio, la breve distanza che ci separava dalla cima della collina. Solo il rumore dei nostri passi e ogni tanto l’abbaiare festoso di Juliet.

- È tua? – gli chiesi quando ci fermammo.

- Sì – mi rispose chiamandola a sé con la mano. Il cane si mise seduto vicino a lui.

Ci fu qualche minuto che non saprei definire con una sola parola, forse imbarazzo o attesa, o tutte e due le cose. Lui aveva rivolto lo sguardo intorno, tenendo gli occhi stretti percorreva il paesaggio come a volerlo riconoscere.

- Vuoi sapere perché sono qui?

Annuii senza riuscire a guardarlo.

- Ho un conto in sospeso con questa collina… – rispose sempre con lo sguardo verso l’orizzonte.

Poi abbassò il viso, spostando un po’ di neve con un leggero movimento del piede, le mani nelle tasche del cappotto. Juliet alzò il muso verso di lui come a chiedere una carezza che immediatamente ricevette, tra le orecchie.

- Quando sono venuto qui la prima volta, sapevo che non ti avrei trovata, tu eri ancora a Londra. La collina era esattamente come me l’avevi descritta e non solo la collina, anche la casa e Miss Pony… suor Lane. Tutto corrispondeva alla perfezione a ciò che mi avevi raccontato, ogni cosa ti somigliava e mi parlava di te. Ebbi paura di aver sbagliato tutto, pensai che non sarei mai dovuto partire senza di te. Quando salii quassù, c’era molta neve proprio come ora ed io… ero così… mi misi a suonare la tua armonica.

Fece una pausa, passandosi una mano sul collo, sotto ai capelli.

- Credo che la tua collina abbia avuto pietà di me e mi ha fatto una promessa: se fossi tornato qui una seconda volta… ti avrei ritrovata.

Si girò guardandomi, avvertii il calore del suo respiro sulla guancia e un lungo brivido mi percorse la schiena.

- Come hai saputo che ero tornata dall’Inghilterra?

- Me lo ha detto un anello!

Sorrisi e anche lui, la tensione che avvertivo tra noi si allentò e finalmente riuscii a guardarlo. Nell’istante preciso in cui incontrai i suoi occhi però non ebbi più la forza di continuare quella conversazione. Mi gettai tra le sue braccia che subito si richiusero intorno alla mia schiena.

Restammo in silenzio per non so quanto tempo. Avvertivo il faticoso movimento del suo petto come se non trovasse aria a sufficienza. Poi fece un lungo sospiro e lo sentii mormorare qualcosa con le labbra sulla mia tempia.

- Dimmi che la tua collina non mi ha tradito, dimmi che ha mantenuto la promessa e che… ti ho davvero ritrovata.

- In realtà… non mi hai mai persa – sussurrai sforzandomi di sciogliere il nodo che mi chiudeva la gola.

Le sue mani abbandonarono la mia schiena, andando in cerca del mio viso sul quale si posarono, calde e tremanti.

- Avrei tanto desiderato essere qui ad aspettarti quando sei venuto la prima volta.

Juliet iniziò d’un tratto a protestare, mugolando e strusciando il muso contro le gambe di Terence.

- Ehi sta’ buona! – le disse accarezzandola.

- Deve essere gelosa del suo Romeo!

Il suo abbaiare ebbe l’effetto di riportarmi alla realtà, interrompendo il sogno che stavo vivendo. Pensai che in casa si stessero chiedendo dove fossi finita. Era ora di colazione per i bambini e di solito aiutavo Miss Pony a prepararla.

- Le prenderà un colpo! – mormorai sorridendo.

- A chi?

- A Miss Pony… ma soprattutto a suor Lane, non si aspettano certo di rivederti.

Ci incamminammo giù per la collina, con il cane che ci precedeva.

 

*******

 

- Candy ma dov’eri finita? I bambini non fanno altro che chiedere di te e qui ci sono un sacco di cose da fare – mi rimproverò Miss Pony, indaffarata in cucina, senza guardarmi e quindi senza accorgersi che non ero da sola.

- Mi perdoni Miss Pony, non mi sono resa conto che fosse così tardi, è solo che … potremmo aggiungere un posto per la colazione?

- Un posto? E per chi? – domandò scoprendo la risposta voltandosi - Oh Santo cielo… signor Graham, ma è proprio lei?

- Buongiorno Miss Pony.

L’anziana donna rimase di sasso, mentre suor Lane entrava in cucina seguita da alcuni bambini. La scena venne ripetuta in maniera identica anche con la religiosa, ed io non riuscivo a trattenere le risa vedendo la faccia allibita delle due donne.

- Perdonatemi vi prego, so di essere arrivato qui senza avvisare, ma avevo una certa urgenza… di rivedere Candy.

Terence pronunciò con fatica quelle parole, sembrava improvvisamente aver perso tutta la sua spavalderia. Miss Pony lo fece accomodare, mentre suor Lane lo guardava in modo strano, alquanto sospettoso direi.

I bambini riempirono Terence di domande e quando ebbero finito fu loro concesso di giocare un po’ con Juliet, nel cortile davanti la casa. Suor Lane mi chiese di accompagnarli, così lasciai Terence da solo.

- Sono davvero felice di constatare che si è ristabilito completamente, da quanto tempo è rientrato in America? – esordì Miss Pony

- Sono tornato a gennaio, appena ho potuto.

- Ha detto di avere una certa urgenza di parlare con la nostra Candy, giusto? – continuò suor Lane andando dritta al punto.

- Sì è così…

- Potrei saperne il motivo?

- Suor Lane non credo spetti a noi fare certe domande, il signor Graham desidera parlare con Candy e se lei vorrà potrà farlo…

- Miss Pony, suor Lane comprendo perfettamente le vostre perplessità, tuttavia… non so se Candy vi ha parlato del fatto che ci siamo incontrati a Londra… sono stati mesi davvero difficili per me, ma anche per lei e credo che ci siamo aiutati a vicenda. Quello che ho vissuto mi ha permesso di vedere con maggiore chiarezza alcune cose, anche il mio rapporto con Candy ed è per questo che sono qui oggi.

Juliet irruppe nella stanza portando con sé una scia di neve fresca.

- Sembra che sia venuta a chiamarla, vada pure fuori con gli altri, Candy la starà aspettando.

- Grazie Miss Pony.

Uscii e vidi un enorme pupazzo di neve, ancora privo della testa.

- Non credi che sia troppo grande! – esclamai ridendo.

- Perché non vieni a darmi una mano invece di stare lì impalato!

- Ai suoi ordini “capo”!

Trascorremmo la mattina e parte del pomeriggio giocando con i bambini che si erano innamorati di Juliet. Non riuscii più a restare da solo con lei neanche per un minuto e avevo l’impressione che Candy facesse di tutto perché non accadesse. Morivo dalla voglia di parlarle per questo accolsi con immensa gratitudine l’invito di Miss Pony a fermarmi per la notte, altrimenti sarei dovuto tornare in albergo a La Porte dove avevo prenotato una stanza. Mi sembrava che la cara donna conoscesse molto bene Candy, ma anche me: evidentemente si era resa conto che le cose non stavano andando come speravo e così, dopo la cena che tra quelle colline si consumava molto presto, ci lasciarono da soli.

Candy terminò di sistemare la cucina e poi tornò nel piccolo salotto dove il camino era costantemente acceso. Mi ero seduto per terra davanti al fuoco e quando la vidi entrare le proposi di fare lo stesso. Si mise sul tappeto, mantenendo una certa distanza tra noi. Juliet dormiva distesa sotto ad una poltrona, aprendo un occhio ogni volta che il fuoco scoppiettava.

- Avrei voluto aiutarti, ma suor Lane me lo ha impedito.

- Sei nostro ospite.

Le squillanti voci dei bambini avevano per tutto il giorno riempito la casa. Adesso era calato, insieme alla notte, un profondo silenzio che come un mantello avvolgeva la collina. Nessuno dei due si decideva a parlare, rivolti entrambi verso la fiamma che illuminava i nostri volti, ce ne stavamo seduti come in attesa di una rivelazione.

- Ha ripreso a nevicare piuttosto forte.

- Sarà difficile domani tornare a New York.

- Devi riprendere il lavoro?

- Sto studiando ma… non salirò sul palco prima del prossimo autunno.

- Giusto, l’ho letto…

Candy si bloccò improvvisamente, come pentita di quelle ultime parole.

- Hai letto… la mia ultima intervista?

- Sì.

Mi voltai per guardarla e nello stesso istante lo fece anche lei.

- Avrei dovuto farlo molto tempo fa, tutta questa assurda storia non sarebbe nemmeno dovuta iniziare.

- Ne abbiamo già parlato e sai cosa penso in proposito.

- So cosa mi hai detto a Londra, tu ritieni giusta la scelta che abbiamo preso quella notte, io non del tutto, ma non posso cancellare quello che è successo. Adesso però le cose sono cambiate.

- Che intendi dire?

- Susanna ed io non siamo una coppia perché in realtà non lo siamo mai stati, per cui la promessa che le hai fatto non ha alcun senso! Io non le appartengo e sono libero di decidere cosa fare della mia vita.

- Io non credo di riuscire a far finta di niente…

- Susanna non è un problema tuo, non spetta a te farle capire come stanno le cose, è compito mio ed io l’ho già fatto! L’ho fatto soprattutto per me stesso, non potevo continuare a vivere nella menzogna, perché questa era la mia vita fino a poco tempo fa… un’immensa bugia! Ma adesso è finita.

- Ma se lei…

- Basta Candy! Lei non può più fare niente!

Mi alzai per ravvivare il fuoco, poi tornai a sedermi sul tappeto, vicino a Candy questa volta, molto vicino.

- Adesso dipende solo da te – mormorai fissandola – Prima sulla collina mi hai detto che non ti ho mai perduta davvero, dicevi sul serio?

- Certo… anche se fingevo persino con me stessa di averti dimenticato, poi quando ti ho rivisto a Londra…

Non la lasciai finire.

- Domani sera devo ripartire… vieni con me.

- Terry…

- Mi hai detto di avere qualche settimana di vacanza… io ho le prove ma non ho spettacoli fino a dopo l’estate, potremmo trascorrere un po’ di tempo insieme, quanto vuoi tu… qualche giorno, una settimana… pensaci, me lo dirai domani.

- D’accordo… adesso forse è meglio che andiamo a dormire.

- Ok.

- Ti mostro la tua stanza.

Candy mi accompagnò fino alla mia camera che si trovava nella parte nuova della casa, distante dalle altre e anche dalla sua, purtroppo.

- Allora… a domani, buonanotte.

- Buonanotte.

Ma nessuno dei due sembrava avere più sonno. Nessuno dei due si muoveva, l’uno davanti l’altra. Dentro di me pregavo che Candy se ne andasse perché stava seriamente rischiando che io aprissi la porta e…

Mi piegai leggermente e la baciai sulla guancia, lei non si allontanò. Il suo profumo mi faceva girare la testa. Prima che fosse troppo tardi mi voltai verso la stanza, dandole le spalle e udii i suoi passi leggeri che si allontanavano. Ero sicuro che non sarei riuscito a chiudere occhio e forse neanche lei.


Capitolo diciannove





“…now I find true
that better is, by evil still made better.
And ruin’d love when it is built anew
grows fairer than at first, more strong, far greater.”[1]

 

 

La Porte, marzo 1919

 

Pensavo che quella notte trascorsa alla Casa di Pony sarebbe stata la più lunga di tutta la mia vita. Avrei atteso l’alba rigirandomi nel letto o addirittura camminando in lungo e in largo per la stanza. Candy si era gettata tra le mie braccia sulla collina ma poi… mi era apparsa così distante, come se volesse sfuggirmi. Evidentemente c’era qualcosa che ancora la turbava: Susanna, quello che era successo… forse non si fidava di me. Di sicuro non si aspettava di vedermi, tantomeno che le chiedessi di seguirmi a New York, ma io non potevo più attendere. Desideravo stare con lei, desideravo trascorrere il resto della mia vita con lei e volevo che il resto della vita iniziasse prima possibile.

Mi alzai dal letto e andai alla finestra. Fuori cadeva quieta la neve, avvertii una stretta allo stomaco, feci un lungo sospiro tentando di rilassarmi quando un rumore mi fece sobbalzare all’improvviso. Mi voltai verso la porta, qualcuno aveva bussato o era solo la mia immaginazione che si divertiva a tormentarmi? Rimasi in silenzio e udii mormorare il mio nome. Andai ad aprire.

- Candy…

- Posso entrare?

- Entra pure.

- Scusami è che… non credo di riuscire ad aspettare domani.

Si mise seduta sul fondo del letto ed io feci lo stesso, nell’attesa che continuasse a parlare.

- A dir la verità… un po’ mi ha stupita il fatto che tu mi abbia dato del tempo per pensare alla tua proposta, non ti ricordavo così… paziente.

- Non lo ero infatti – le risposi sorridendo, poi continuai serio – ma la vita mi ha costretto a diventarlo.

- Mi dispiace…

- Di cosa?

- Di aver creduto a Susanna, di aver pensato che lei ti amasse davvero e potesse renderti felice… mi dispiace di essere andata via da quell’ospedale e di averti lasciato da solo ad affrontare ogni cosa… di non essere salita su quel palco a Rockstown per portarti via con me… di aver promesso di non vederti più…

- Fermati Candy ti prego, perché mi dici tutte queste cose? Fanno parte del passato ormai… non devi più pensarci!

- Non è vero, hanno continuato a condizionarmi anche quando ci siamo rivisti a Londra! Ed io ho continuato a sbagliare, ho continuato a negare che il mio amore per te fosse più forte di tutto, anche di Susanna e persino di me stessa! Perché io ti amo Terry, da sempre, probabilmente già da quel nostro primo incontro sul piroscafo, quando mi facesti arrabbiare così tanto da non farmi chiudere occhio quella notte! Ma in realtà mi avevi già legata a te in un modo che non so descrivere e che per molto tempo non sono riuscita neanche ad accettare, ma è così, è sempre stato così. Io sono legata a te e lo sarò per sempre, qualunque cosa accada!

- Dillo ancora!

- Che cosa?

- Che mi ami, dimmelo ancora!

- Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo… posso continuare fino a quando non ti stancherai di sentirlo!

- Non mi stancherò mai!

Poggiai la mia fronte sulla sua, mentre le stringevo le mani. Le dissi che anch’io quella notte non avevo dormito e che…

- Mi sono innamorato subito di te, non volevo crederci, ma è così e me ne resi conto quando lasciai la St. Paul School… a New York non sai quanto mi mancavi!

L’abbracciai stretta, per niente al mondo l’avrei lasciata andare un’altra volta.

Avvertii le sue mani chiudersi dietro al mio collo, il suo petto aderire al mio tanto da confondere il battito dei nostri cuori impazziti. Iniziai a baciarla ovunque, sui capelli, sulle guance, sul collo… prima di conquistare le sue labbra. Con quei baci volevamo cancellare tutto il dolore che c’eravamo portati dietro per troppo tempo, volevamo ricominciare a vivere e solo insieme avremmo potuto farlo!

La mattina dopo partimmo per New York.

 

*******

 

New York, marzo 1919

 

Quando arrivammo a New York, dopo aver viaggiato per un giorno intero, Terence mi accompagnò in albergo. Eravamo entrambi molto stanchi ma non riuscivamo a trovare la forza di separarci. Ci eravamo accordati per vederci la mattina dopo a colazione, lui sarebbe venuto a prendermi e saremmo andati da qualche parte, dove non aveva importanza, per trascorre la giornata insieme.

- Ti aiuto a portare la valigia – disse e aprì lo sportello dell’auto per scendere.

- Aspetta! – esclamai e lui si voltò.

Ci fissammo per qualche istante e poi, senza staccare i suoi occhi dai miei, richiuse lo sportello e accese di nuovo il motore. Gli sorrisi un po’ imbarazzata a dir la verità, mentre ripartiva. Appena entrammo nel suo appartamento mi baciò, poi prendendomi un po’ in giro mi disse che potevo stare tranquilla perché aveva una camera degli ospiti.

Trascorremmo insieme dei giorni molto belli, anche se ogni volta che uscivamo dovevamo fare attenzione ai giornalisti, per cui preferivamo restare a casa, ma questo non sembrava dispiacerci molto.

Un pomeriggio decidemmo di fare il bagno a Juliet che non era assolutamente d’accordo con noi e ci fece penare non poco! Quando vide la tinozza con l’acqua, si mise a correre per tutto il giardino e ci vollero diversi minuti per riuscire ad acchiapparla. Si tranquillizzò solo quando si rese conto che l’acqua calda non era poi così male, ma rischiammo anche noi di fare il bagno quando, saltando fuori dalla vasca per poco non la rovesciò.

- Ecco, adesso si mette a correre per asciugarsi…

- Ma si sta rotolando per terra… così si sporcherà tutta di nuovo! – esclamai scoppiando a ridere.

- Lo fa sempre, è incorreggibile… proprio come la mia Giulietta…

Terence mi guardò e non so perché quel giorno i suoi occhi mi sembravano diversi, mi sentivo imbarazzata seduta vicino a lui sul prato del giardino, così cercai di parlare per nascondere ciò che provavo.

- Dove l’hai trovata?

Abbassò il viso, giocherellando con un filo d’erba.

- Non è una bella storia, vuoi ascoltarla davvero?

- Solo se tu hai voglia di raccontarmela.

- D’accordo però andiamo dentro, inizia a far freddo.

Tornammo in casa, Terence accese il fuoco e ci sedemmo sul divano. Presi una coperta per scaldarci.

- Sull’Invincible c’era un ragazzino, si chiamava Franklin. Aveva da poco compiuto 18 anni ed era il più giovane della mia squadra. Si era arruolato pensando che fosse la cosa più giusta, ma si era reso conto presto di essersi sbagliato. Mi stava sempre dietro, non voleva rimanere da solo. Implorai il capitano di rimandarlo a casa, di trovare un motivo per congedarlo, ma mi rispose che era impossibile.

Terence fece una pausa, bevve un sorso del tè che avevo preparato, poi poggiò la testa allo schienale del divano e chiuse gli occhi.

- Il giorno che subimmo l’attacco tedesco, non ero con lui. Lo cercai dappertutto, ma quando lo trovai… era troppo tardi. Nella mano stringeva una foto, la foto di Juliet… era poco più di un bambino…

Non sapevo cosa dire. Gli carezzai il viso, lui prese la mia mano e la baciò.

- Quando venni a sapere che la sua famiglia, dopo l’inizio della guerra, si era trasferita negli Stati Uniti, decisi di andare dai suoi genitori per consegnare loro i suoi effetti personali. Mi ringraziarono in mille modi, ma quello era il minimo che potessi fare. Per tutto il tempo che rimasi con loro, Juliet restò sdraiata ai miei piedi e quando mi alzai per andarmene mi seguì. Mi raccontarono che era il cane di Franklin e che non si separavano mai… non so, sembrava che avesse capito tutto, che lui non sarebbe più tornato e che io ero stato l’ultimo a salutarlo. Il padre tentò di chiamarla per farla tornare indietro, ma lei sembrava decisa a venire con me. Quando salii sull’auto, si piazzò davanti impedendomi di partire, aprii lo sportello e saltò su. Da allora sta con me. Fine della storia.

- Mi dispiace tanto Terry… posso solo immaginare quanto siano stati difficili quei mesi…

- Non è vero che puoi solo immaginare, anche tu sai e hai visto con i tuoi occhi l’orrore della guerra.

Mi avvicinai a lui e lo avvolsi nella coperta. Restammo un po’ in silenzio, abbracciati.

- Adesso capisco perché quando sei tornato i tuoi occhi non volevano più vedere niente.

- Tu mi hai salvato!

- Ho fatto ben poco…

- L’unico motivo per cui sono tornato a vedere è stato capire che al di là di quel buio c’eri tu, nonostante non volessi ammetterlo.

- Non credevo di avere il diritto di provare ancora quei sentimenti per te, ero spaventata…

- E lo sei ancora? – mi chiese alzandomi il mento con un dito perché lo guardassi.

- No, adesso non più – gli dissi, prima di baciarlo.

Lui rispose al mio bacio in un modo che non aveva mai fatto. Oltre ai suoi occhi anche i suoi baci mi sembravano diversi quel giorno. Così come le carezze che le sue mani lasciavano lungo le mie braccia, sulle mie spalle, sul mio viso… o forse ero io diversa e quando la sua mano calda scivolò sotto al mio vestito, non mi allontanai ma mi strinsi ancora di più a lui.

Probabilmente non si aspettava questa mia reazione e lo sentii sospirare forte, poi avvicinò le labbra al mio orecchio e con difficoltà mi parlò.

- Se vuoi che mi fermi dimmelo ora.

Avevo capito bene ciò che mi stava chiedendo? Sì avevo capito perché lo desideravo anch’io e ne fui certa in quell’istante. Lo guardai negli occhi perché fosse sicuro della mia riposta e gli dissi che non volevo che si fermasse.

Non ho mai dormito in quell’albergo, non me ne sono più andata, non mi sono più allontanata da lui.

 

New York, giugno 1920

 

Dopo due settimane dal nostro arrivo a New York ci siamo sposati, nella Cattedrale di San Patrizio, con una semplice cerimonia privata, insieme ai nostri amici più cari. Era presente anche il Duca di Granchester, il padre di Terence. Inevitabilmente la notizia è apparsa sui giornali, facendo molto scalpore perché nessuno sapeva della mia esistenza e da quel giorno ho dovuto imparare a gestire la stampa. I primi mesi non è stato semplice, Terence ha cercato di proteggermi in ogni modo, poi pian piano è andata sempre meglio ed oggi dice che sono molto più brava di lui a trattare con i giornalisti.

- Basta sorridere e mi lasciano in pace!

- Con me non funziona, sarà perché non ho un sorriso bello come il tuo…

- Il tuo sorriso è magnifico ed io lo adoro.

- Questo mi basta!

Sono riuscita ad ottenere un impiego presso il Bellevue Hospital di Manhattan, mi trovo molto bene anche se da qualche mese sono in congedo perché… aspetto un bambino. Quando l’ho detto a Terence, ha iniziato a piangere ed io mi sono spaventata perché ho pensato che non lo volesse. Che sciocca! Mi ha detto che avere un figlio da me era ciò che desiderava di più al mondo.

Non lavorare da una parte mi pesa, ma sono felice di potermi godere appieno questo momento. Terence è magnifico anche se un po’ apprensivo. Gli ho spiegato che la maternità non è una malattia e, in assenza di particolari problemi, una donna incinta può vivere normalmente, facendo più o meno tutto ciò che faceva prima. Adesso si è un po’ abituato, è più tranquillo ed io… lo amo ogni giorno di più.

A volte lo guardo e ancora non ci credo. Averlo accanto è… qualcosa di indescrivibile. So soltanto che mai nessuno mi ha fatto provare ciò che sento quando sono con lui e anche quando non siamo insieme, non riesco mai a togliermelo dalla testa. Siamo due persone diverse, è innegabile, ma è come se fossimo due colori che si sono mischiati creandone uno nuovo, ed ora è impossibile separarli.

Adesso è in tournée, torna fra pochi giorni, non vedo l’ora.

 

- Terry!

- Quanto mi sei mancata Lentiggini!

- I giornali hanno scritto che il tuo Amleto è stato più folle del solito e hanno dato la colpa al fatto che non riesci a stare lontano da tua moglie.

- Ah davvero?!

- Dicono che tu sia pazzo di me…

- Chissà chi mette in giro queste assurdità!

- Terence!!!

- Vieni qua… esiste solo un modo per farmi recuperare il senno…

- Così lo fai perdere a me però… - gli rispondo con il poco fiato che i suoi baci mi lasciano.

 

Ho voluto che andasse in tournée anche senza di me, tre settimane in fondo non mi sembravano molto lunghe da passare, in realtà non finivano mai. Questa volta non l’ho potuto seguire, le mie condizioni non me lo hanno permesso. Però lui non voleva che restassi a casa da sola e mi ha obbligato a trasferirmi da Eleanor che mi ha coccolata per tutto il tempo.

- Credo di aver preso almeno tre chili in queste settimane, tue madre ha ordinato alla cuoca di esaudire ogni mio desiderio!

- E tu ne hai approfittato vero! – esclama scoppiando a ridere.

- Smettila di ridere…

- Sei bellissima!

- Bugiardo!

- Ma perché non eri a Long Island oggi? Credevo tu mi aspettassi lì…

- Beh oggi… ho avuto visite…

- Visite? Chi? Il damerino con la moglie? – mi chiede mentre inizia a spogliarsi.

- No… è venuta Susanna.

- Cosa? Susanna… Susanna Marlowe… ho capito bene?

- Sì.

- Che cosa le è saltato in mente! Come si è permessa di venire qui…

- In realtà… sono stata io ad invitarla.

- Stai scherzando… sei impazzita! – quasi grida mentre litiga con i bottoni della sua camicia.

Mi avvicino e lo aiuto. Sapevo che avrebbe reagito così, non vuole che la nominiamo quando siamo insieme, dice sempre che è un problema suo e non mio, ma si sbaglia.

- Ascoltami…

- No, non voglio parlare di lei, lo sai.

- Invece mi ascolti perché dobbiamo risolvere questa cosa una volta per tutte! Siediti per favore.

Sa che quando uso questo tono severo con lui significa che non ho intenzione di lasciar perdere, ma resta in piedi vicino alla finestra, guarda fuori silenzioso.

 

Il sabato precedente al ritorno di Terence, ero andata a teatro insieme ad Archie ed Annie. Si trattava di uno spettacolo a cui Susanna aveva partecipato componendo alcune musiche, per cui immaginavo che l’avrei incontrata. Quando mi vide nel foyer rimase sorpresa e non si mosse, poi le sorrisi e lei fece lo stesso, così mi avvicinai.

- Ciao Susanna, come stai?

- Ciao Candy, bene… ti ringrazio – mi rispose lanciando uno sguardo alle mie spalle.

- Sono con degli amici, Terence è in tournée.

Si irrigidì all’udire quel nome, così le feci i complimenti per il successo che stava riscuotendo. Sorrise di nuovo nervosamente. Le persone che erano con lei la chiamarono perché se ne stavano andando, fu in quel momento che decisi di chiederle di venirmi a trovare e lei accettò.

 

- Avevo bisogno di parlarle, Terence.

- Perché? Perché vuoi che continui a far parte della nostra vita?

- Ti sbagli. Vedi tu la consideri ancora un problema, un problema solo tuo, e lo sarà fino a quando non riusciremo ad avere con lei un rapporto normale. Forse non saremo mai migliori amiche, ma non voglio che tra noi ci siano cose non dette o fraintendimenti.

- Ti rendi conto di quello che ci ha fatto?

- Quello che è successo non è solo colpa sua, lo sai, le abbiamo permesso di mettersi fra noi e questo non deve più accadere.

Mi avvicino a lui, abbracciandolo e poggiando la mia guancia sulla sua schiena nuda. Lo sento sospirare.

- Non mi dirai di cosa avete parlato vero?

- No, non te lo dirò. Ti fidi di me?

Si volta e mi guarda.

- Ho scelta?

- No!

Sorridiamo.

- Ho bisogno di fare un bagno.

- Anch’io!

- Sei sicura che ci entriamo tutti e due? Sei un po’… ingombrante Lentiggini!

- Terence ti odio! – grido non troppo convinta mentre lui mi prende in braccio e mi porta con sé.






[1] “… ora riconosco come sia vero che il bene è reso dal male anche migliore, e che l’amore infranto, una volta rifatto intero, ricresce più bello, più forte e più grande assai.” (cit. da W. Shakespeare, Sonetto CXIX).



THE END

Commenti

  1. Hermosa historia ❤️❤️❤️

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  2. Hermosa historia!! No puedo dejar de leer tus hermosas y maravillosas historias 😍😍

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    1. Grazie mille! 😘😘 Pian piano metterò nel blog tutte le mie storie 😊

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  3. La sensibilità è la delicatezza di questa storia è unico!ho sofferto e pensato fino all'ultimo!stupenda.Ary

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    1. Un periodo difficile da descrivere quello della guerra che ha coinvolto anche Candy e Terence, ma che alla fine ha permesso loro di ritrovarsi. Grazie

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  4. Ciao, une très belle histoire avec des faits réels, de l'émotion du début jusqu'à la fin
    Merci beaucoup 😘

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