Come un uragano
“Le dissero: Non sarai in grado di sopportare l’uragano. Lei rispose: Io sono l’uragano!”
(Ada Luz Márquez)
Prologo
Stratford-upon-Avon, 1923
- No, no, no … allora non avete capito niente di quello che ho detto! Ma cosa devo fare con voi, accidenti! Louise, ricominciamo dalla tua battuta ok? Miranda ha appena visto Ferdinand per la prima volta e che cosa dice? “I might call him a thing divine” … lo paragona ad un’opera divina e dopo dirà che lui è il primo uomo per il quale abbia mai sospirato! La vuoi far sentire questa meraviglia e questo stupore nella tua voce? E tu John … quando Ferdinand vede Miranda la paragona ad una dea, è talmente sopraffatto dalla sua bellezza che non riesce a capire se si tratti di una donna oppure di una creatura soprannaturale! Quale pensi sia la sua espressione in quel momento? È stravolto ed estasiato, non credi? Allora … atto primo scena seconda, ripartiamo dal dialogo tra Prospero e Miranda, quando il padre le chiede di dirgli ciò che vede. Dai ragazzi … voglio concentrazione e passione!
- Scusami Terence …
- Che cosa c’è Mike? Lo sai che non voglio essere interrotto quando stiamo provando!
- Veramente sei stato tu a chiedermi di avvisarti … alle 5.
- Perché che ore sono?
- Le 5 e 30!
- Dannazione … ma perché non mi hai chiamato prima allora!
- Ho tentato ma … non mi hai nemmeno ascoltato …
- D’accordo d’accordo, lasciamo perdere … ragazzi per oggi ci fermiamo, a domani, puntuali!
Le sedute di prova con il nuovo regista andavano sempre a finire così. Non si rendeva conto del tempo che passava e nessuno degli attori aveva il coraggio di dirgli che era l’ora di chiudere.
Da quando era arrivato, all’inizio affiancando il vecchio regista e poi prendendone il posto, questo era il primo spettacolo che metteva in scena completamente da solo, per cui avvertiva tutto il peso della responsabilità sulle sue spalle. Del resto non aveva alcuna esperienza nel campo della regia, ma come attore ormai tutti lo conoscevano anche oltreoceano e avevano avuto modo di ammirarne l’incredibile talento. Nel 1920 la sua interpretazione dell’Amleto aveva varcato i confini d’America ed era arrivata in Europa e la critica teatrale ne parlava ancora come di un evento memorabile.
Quando dallo Shakespeare Memorial Theatre era arrivata la proposta di occuparsi della regia del nuovo spettacolo, lui aveva esitato non sentendosi ancora all’altezza di una tale sfida. Era stato il suo mentore, Robert Hathaway, a convincerlo e a spingerlo ad accettare. Così nel settembre del 1921 era partito per Stratford-upon-Avon e non aveva più fatto ritorno a New York.
Ogni volta che si trovava sul palcoscenico a dirigere i suoi attori, dimenticava tutto il resto, il che era un bene per lui perché di cose spiacevoli da dimenticare ne aveva molte, ma quel pomeriggio aveva persino scordato di avere un appuntamento importante a cui, in realtà, si sarebbe sottratto volentieri. Nel suo ufficio lo attendeva infatti per intervistarlo Mr. Dawson, un giornalista del Times.
- Buonasera Mr. Graham, è un onore per me conoscerla!
- La ringrazio e mi scuso per il ritardo, ma quando sono in teatro spesso non faccio caso al tempo che passa. Vogliamo iniziare?
- Certo … la prima domanda riguarda proprio il suo lavoro: com’è stato passare dal ruolo di attore a quello di regista?
- All’inizio molto difficile, ma mi piacciono le sfide e ho deciso di tentare. Del resto ho avuto un ottimo maestro che ha sempre avuto fiducia in me e mi ha spinto ad accettare. Tra poco sarà il pubblico a giudicare se ho fatto un buon lavoro oppure no.
- Quando parla del suo maestro si riferisce a Robert Hathaway, ci può dire quando e come vi siete conosciuti?
- Circa dieci anni fa, ero solo un ragazzino, con molte ambizioni e nessuna esperienza, quando mi sono presentato alla Compagnia Stratford, a Broadway. Robert ha creduto in me fin da subito, non so perché, dovrebbe chiederlo a lui!
- Forse perché ha riconosciuto immediatamente il suo talento!
- Probabile!
- Ma che cosa spinse quel ragazzino a dedicarsi al teatro?
- Ero un adolescente irrequieto e solitario, per molto tempo Shakespeare è stato il mio unico amico! Poi i geni materni hanno fatto il resto, credo.
- Sua madre, la famosa attrice Eleanor Baker, è americana, ma suo padre è un nobile inglese e lei ha vissuto a Londra prima di trasferirsi a New York, è corretto?
- Sì è corretto. Sono rimasto a Londra fino all’età di 15 anni.
- E suo padre lo ha lasciato andare?
- Mio padre lo ha saputo quando ormai ero già oltreoceano!
- E non ha cercato di riportarlo a casa? In fondo, come lei stesso ha ammesso, era solo un ragazzino.
- Sinceramente non lo so e non mi interessa.
- Si dice che i rapporti con suo padre non siano mai stati buoni, questa risposta sembra confermarlo.
- È così, ma non intendo dirle di più in proposito. Ha altre domande?
- So che non ama parlare della sua vita privata ma comprenderà che al pubblico piacerebbe molto sapere qualcosa in più riguardo a ciò che fa Terence Graham quando non lavora.
- Sono un uomo estremamente noioso mi creda, per cui c’è ben poco da dire. Trascorro la maggior parte del mio tempo in teatro oppure studiando, non faccio vita mondana e raramente mi concedo qualche uscita con i pochi amici che ho, in genere per ascoltare musica e bere qualcosa. Tutto qui!
- E l’amore?
- Essere saggio e amare eccede le capacità umane[1] ed io sono diventato molto saggio, col passare del tempo!
- Eppure nelle sue rare uscite pubbliche è sempre accompagnato da splendide donne!
- Ma lei mi ha fatto una domanda sull’amore!
- Dunque, nonostante il suo indiscutibile fascino per cui l’intero genere femminile farebbe follie, intende farci credere di non essere mai stato innamorato?
- Esattamente.
- E il suo rapporto con la collega Susanna Marlowe come lo definirebbe?
- Si è appena dato la risposta da solo: Susanna era semplicemente una collega.
- Dopo l’incidente in teatro che l’ha vista drammaticamente coinvolta, si è parlato per molto tempo di un legame più profondo tra voi, addirittura di un fidanzamento.
- I giornalisti spesso scrivono quello che i lettori vogliono sentirsi dire, spero che lei non faccia lo stesso. La nostra intervista si chiude qui, addio Mr. Dawson.
Quando sono arrivato a Stratford tre anni fa mi sentivo perso. Non conoscevo nessuno e l’idea di lasciare la veste di attore e lavorare per la prima volta come regista mi spaventava e stimolava allo stesso tempo. Pian piano ho cominciato a prendere confidenza con l’ambiente e ogni giorno che passava sentivo sempre più che quello era il mio posto.
Il direttore del teatro, Mr. William Bridges-Adams, aveva piena fiducia in me. Era stato proprio lui a contattarmi, dichiarandosi letteralmente folgorato dal mio talento da quando aveva assistito all’Amleto e ritenendo che sarei stato in grado di far crescere i nuovi attori che da poco facevano parte della compagnia.
Quando arrivò la sua proposta di lavoro non era un bel periodo per me. New York mi stava stretta e, dopo la morte di Susanna, avevo la stampa costantemente addosso. Così, incoraggiato da Robert, decisi di accettare e partii per l’Inghilterra.
Il primo spettacolo che portai in scena come regista ebbe un successo clamoroso. La tempesta non era mai stato messo in cartellone per cui temevo che il pubblico, non conoscendolo, gli avrebbe riservato un’accoglienza piuttosto fredda. Mi sbagliavo! La versione che ne avevo dato, esplorando gli abissi della psiche dei personaggi, sulle orme degli ultimi studi freudiani, aveva letteralmente rapito il pubblico che, dopo aver assistito alla rappresentazione, usciva dal teatro come frastornato.
Dopo la Prima, ero al settimo cielo! Mi lasciai trascinare dai miei attori ad una festa organizzata per l’occasione. Dopo mesi e mesi di prove estenuanti, di intenso studio e lavoro, mi ero proprio meritato un po’ di svago, pensai. Erano secoli che non uscivo a divertirmi.
Il salone era strapieno di gente e naturalmente la stampa locale non si era fatta sfuggire l’occasione. Non so quante foto mi scattarono quella sera, anche se io facevo di tutto per evitarlo. Una però la conservo ancora: c’è il direttore del teatro al centro che si complimenta con il primo attore e con me. Ho l’aria rilassata, sorrido leggermente rivolto a John Duncan che ha dato un’interpretazione strepitosa di Ferdinand.
Con John siamo diventati ottimi amici. È inglese, di Oxford, lavora a Stratford da quattro anni. Quando sono arrivato qui c’è stata subito un’ottima intesa tra noi. Forse perché anche lui se n’è andato di casa molto presto e ha fatto tutto da solo. Appena abbiamo un po’ di tempo libero, raramente a dir la verità, usciamo insieme e di solito andiamo ad Oxford dove lui ha molti amici. Giriamo per locali, beviamo qualcosa, ascoltiamo buona musica e le ragazze non mancano mai. Ne ho conosciute molte in questi anni, forse troppe. Relazioni poco impegnative, passando da una ragazza all’altra cercando qualcosa che non sono mai più riuscito a trovare.
E poi dopo ogni successo ottenuto (e ce ne sono stati molti negli ultimi anni!), una volta smaltita l’adrenalina, arriva sempre quel momento no. Non so perché, ma succede! Una fitta acuta di dolore che mi coglie senza preavviso, in mezzo alla gioia e alla soddisfazione. Come un nodo in gola che mi toglie il respiro. Non so da dove provenga, forse da una piccola parte nascosta del mio cuore e per un attimo è come se tutto diventasse buio e freddo come una notte d’inverno, quando nevica forte e il vento gelido ti sferza la faccia e ti accascia. È un attimo e poi scompare, ma in quell’istante io non esisto! Per fortuna dura poco, altrimenti sarei costretto a fuggire. Invece miracolosamente torno in me e nessuno sembra essersi mai accorto di niente.
Proprio in uno di quei momenti, quella sera alla festa accadde qualcosa di diverso. Ero seduto ad un tavolo, insieme al resto della compagnia, quando vidi una ragazza avanzare con passo deciso verso di me. Un abito molto corto le scopriva le gambe lunghe e affusolate, portava i capelli biondi sopra le spalle, sciolti e mentre camminava i suoi profondi occhi azzurri non si staccavano dai miei.
- Vuoi ballare? – mi chiese quando mi fu abbastanza vicina.
Rimasi senza parole, di solito ero io a fare quella domanda ad una ragazza. Gli altri seduti al tavolo iniziarono a sghignazzare e per evitare di fare una figuraccia mi alzai e la seguii. Mi raccontò di essere una giornalista, ma non si occupava di spettacolo. Era stata al fronte come inviata di guerra, non ne parlava volentieri. Proprio per il suo lavoro girava il mondo ma in quei giorni era a Stratford, dove era nata e dove abitava. Aveva qualche anno più di me. Quella sera stessa mi invitò a casa sua e passammo la notte insieme.
Iniziammo a vederci molto di frequente. Mi piaceva stare con lei. Aveva un carattere deciso e un po’ pazzo, come me. Saltavamo sulla mia auto e senza una meta precisa scappavamo dalla città. Grazie alle sue conoscenze riuscivamo sempre ad evitare la stampa per cui nessuno sapeva di noi.
Andammo avanti per circa un anno. Lei ogni tanto partiva, stava fuori due o tre settimane e quando tornava mi chiamava ed io la raggiungevo.
Poi una sera, a casa sua, avevamo appena fatto l’amore e lei mi chiese di restare. Io le risposi che non potevo perché il giorno dopo dovevo alzarmi presto e avevo un sacco di lavoro da sbrigare per il nuovo spettacolo.
- Non intendevo solo stasera, perché non resti per sempre?
Non mi aspettavo quella domanda ed esitai. Lei capì immediatamente.
Il giorno dopo in teatro insieme ad un mazzo di rose rosse trovai un biglietto con il quale mi diceva addio. Sarebbe partita e non l’avrei mai più rivista.
Si chiamava Nathalie, Nat per me.
Quella è stata forse l’unica volta in cui ho provato davvero a crederci, a credere di essere andato avanti.
Nei mesi successivi mi capitava spesso di pensare a lei, mi mancavano la sua compagnia e il suo letto. Poi pian piano non ci pensai più e ripresi la mia vita, dedicandomi completamente al lavoro. Mi sentivo sicuro di poter stare bene anche senza l’amore, fino a quando non arrivò quella telefonata da New York.
Era la fine del mese di agosto. La stagione teatrale era in pausa, ma tra poche settimane avremmo ricominciato le prove per Sogno di una notte di mezza estate. Per la prima volta avrei diretto una commedia che oltretutto non avevo mai interpretato. Una vera sfida, non vedevo l’ora di cominciare!
Con John e gli altri trascorrevamo qualche serata insieme, a casa mia. Al gruppo si erano uniti anche un paio di scrittrici, un pittore e alcuni musicisti. Eravamo una specie di circolo culturale, molto stimolante e spesso divertente. Era una situazione decisamente nuova per me, il mio carattere piuttosto riservato non mi aveva mai permesso di essere circondato da molte persone. Forse perché a Stratford non mi conosceva quasi nessuno, non sapevano quasi niente della mia vita passata, del resto di quella non parlavo mai e nessuno mi faceva troppe domande. Anche questo mi stava aiutando a credere di aver chiuso con il passato, con il vecchio Terence cupo e rabbioso con il mondo. Volevo vivere la mia vita senza pensare più a ciò che era stato o che sarebbe potuto essere.
Ero deciso a non mettere più piede in America ma non avevo fatto i conti col destino che evidentemente aveva già altri programmi per me.
C’era un po’ di confusione quella sera in casa, avevamo messo della musica e forse bevuto e fumato un po’ troppo, per cui non avevo sentito squillare il telefono. Fu John a chiamarmi dal salotto dicendomi che il telefono sembrava impazzito da tanto che non smetteva di suonare.
- Chi può essere a quest’ora? Sono quasi le 2! Pronto … sì sono io … ciao Robert, come stai? Cosa è successo?
New York, una settimana prima
Eleanor Baker era ormai un’attrice di fama mondiale. I suoi film avevano raggiunto anche l’Europa e la sua agenda era sempre fitta di impegni. Del resto la recitazione era la sua vita, non poteva farne a meno, per questo non si risparmiava ed era spesso in viaggio da un capo all’altro del mondo.
In quei giorni stranamente si trovava a New York per rilasciare una serie di interviste. Come al solito una folla di reporter e ammiratori si era radunata al Plaza Hotel e quando l’attrice arrivò davanti l’ingresso, non fu semplice per lei uscire dall’auto e raggiungere l’interno, dove nella sala conferenze erano ammessi solo i giornalisti accreditati.
La sala era strapiena di gente e faceva un gran caldo, Miss Baker fasciata in un splendido abito in seta color cipria appariva come una visione soprannaturale. Il taglio corto dei capelli che aveva adottato da poco faceva risaltare ancora di più i suoi magnetici occhi blu cobalto e le labbra avevano una sensualità naturale, accentuata dal colore rosso fuoco con cui erano state finemente dipinte. Inutile dire che chiunque le si trovasse di fronte ne rimaneva abbagliato e non era raro osservare giornalisti anche di una certa esperienza ammutolirsi.
L’attrice si sedette al centro del tavolo allestito per la conferenza, vicino a lei la sua assistente personale e alcuni collaboratori. Il moderatore dette il via alle domande secondo una scaletta prestabilita. Il tutto si sarebbe svolto al massimo in un’ora, limite di tempo che Miss Baker aveva concesso dal momento che sarebbe dovuta ripartire il giorno stesso per Los Angeles.
Tra i presenti, in qualità non solo di ammiratore ma soprattutto di grande amico, anche Robert Hathaway il quale aveva colto l’occasione per rivedere Eleanor con cui aveva condiviso i primi anni di attività artistica. Insieme, giovanissimi, avevano persino recitato in un Romeo e Giulietta mettendo subito in luce il loro straordinario talento.
Fu proprio lui a rendersi conto per primo che qualcosa non andava. L’espressione dell’attrice non era radiosa come al solito, sembrava che qualcosa la preoccupasse. Dopo una prima serie di domande chiese di poter avere un bicchiere d’acqua e per un attimo sembrò riprendersi, ma immediatamente dopo si alzò dichiarando di voler fare una breve pausa. Mentre si allontanava dalla sala, Robert la vide barcollare ed improvvisamente scivolare a terra, come se le gambe avessero ceduto.
Un gruppo di persone si radunò subito intorno a lei, la portarono in una stanza adiacente, al riparo dai curiosi, ma l’attrice non accennava a riprendere conoscenza. Robert giunto a fatica vicino a lei, facendosi largo tra i giornalisti, ordinò immediatamente di chiamare un ambulanza e allertare l’ospedale più vicino. I soccorsi arrivarono rapidamente e in pochi minuti Miss Baker venne trasportata al Bellevue Hospital Center dove l’equipe medica del pronto soccorso eseguì tutti gli accertamenti del caso al fine di capire cosa avesse determinato quell’improvvisa perdita di coscienza.
Per fortuna vennero immediatamente escluse patologie serie e la diagnosi più accreditata fu un forte stress dovuto al carico eccessivo di lavoro, unito alle condizioni climatiche che in quei giorni facevano registrare a New York temperature altamente sopra la media stagionale. In via precauzionale comunque l’attrice venne trasferita nel reparto di cardiologia dove sarebbe stata trattenuta almeno una settimana per svolgere un checkup completo dell’apparato cardiocircolatorio.
- Che scocciatura, accidenti! Dovrò cancellare tutti gli impegni della prossima settimana – esclamò alquanto infastidita Eleanor, sdraiata nel suo letto d’ospedale.
- Credo invece che sia proprio arrivato il momento che tu prenda una bella vacanza.
- Robert che cosa stai dicendo? Una vacanza si prende da qualcosa che non ci piace e tu sai bene quanto me l’amore che si prova per il nostro lavoro.
- Certo che lo so, ma so anche che non fai una pausa da anni. Non preoccuparti, nessuno si dimenticherà di Eleanor Baker se sparirai dalla scena per un po’, anzi. Tutti sentiranno talmente la tua mancanza che al tuo rientro riscuoterai un successo ancora maggiore, ammesso che ciò sia possibile. Il pubblico ti venera!
- Mi fido di te Robert, lo sai, ma credimi non è il successo che mi rende felice bensì interpretare ogni volta personaggi diversi, poter assaporare mille vite piuttosto che una sola! Questo è la grande magia della recitazione a cui non riesco a rinunciare per niente al mondo!
- Mi sembra di sentir parlare tuo figlio! A proposito, non pensi sia il caso di avvisarlo, vuoi che lo faccia io? Vuoi che gli chieda di tornare a New York?
- Stai scherzando! Non c’è alcun motivo per cui debba attraversare l’oceano, i medici hanno detto che non c’è da preoccuparsi.
- Allora lo chiamerò io questa sera per tranquillizzarlo nel caso leggesse la notizia sui giornali.
Tuttavia nei giorni seguenti, dopo il trasferimento nel reparto di cardiologia, accadde qualcosa che fece decisamente cambiare idea a Miss Baker!
Le sue condizioni di salute si mantenevano stabili, anzi ogni giorno sembrava pian piano recuperare le forze. Le analisi eseguite scrupolosamente dai medici che la seguivano avevano dato tutte esito negativo, per cui il cuore dell’attrice non destava particolare preoccupazione a patto che, una volta dimessa, avesse osservato un periodo di assoluto riposo, lontano da palcoscenico e riflettori.
Nonostante questo, quando Robert andò a trovarla, le sembrò particolarmente pensierosa ed agitata.
- Che succede Eleanor, qualcosa non va?
L’attrice esitò prima di rispondere, incerta su cosa dire. Balbettò qualcosa in merito ad una certa ansia che avvertiva soprattutto … sapendo il figlio così lontano. Confidò a Robert che in quel momento sentiva profondamente la mancanza di Terence e, anche se le dispiaceva molto farlo preoccupare inutilmente, ciò che desiderava di più era averlo vicino.
- Ma sei stata proprio tu appena due giorni fa a vietarmi di chiedergli di tornare!
- Lo so perfettamente ma … non so perché vorrei tanto che fosse qui. Credo che prima del prossimo spettacolo abbia qualche settimana di pausa e dal momento che anch’io dovrò starmene tranquilla a casa, mi farebbe piacere passare un po’ di tempo con mio figlio, chiedo troppo? Sono quasi due anni che non lo vedo, l’ultima volta che sono andata a Londra c’è stato solo il tempo per un breve saluto, mi manca molto.
- D’accordo, lo chiamo e glielo dico, contenta?
- Grazie mille Robert, come farei senza di te!
Terence non ci pensò due volte ad imbarcarsi. Due giorni dopo aver ricevuto la telefonata di Hathaway era già sul primo transatlantico disponibile, preoccupato per le condizioni di salute della madre. Temeva infatti che Robert non gli avesse detto come stavano realmente le cose ed era impaziente di scorgere all’orizzonte la costa americana.
Tuttavia, l’idea di tornare a New York non lo entusiasmava affatto, anzi. Anche se a Broadway era rinato come attore e il pubblico newyorkese lo adorava, troppi ricordi dolorosi riaffioravano alla sua mente, chiudendogli lo stomaco in una morza. Gli anni trascorsi vicino a Susanna lo avevano trasformato in un pezzo di ghiaccio che si scioglieva soltanto quando saliva sul palco e dava voce ai personaggi di Shakespeare. Quando era venuta a mancare poi, gli era sembrato che tutto fosse stato inutile e si era sentito svuotato, ogni cosa gli era apparsa priva di senso.
Di sicuro adesso era diverso. Il periodo vissuto in Inghilterra lo aveva reso più forte e aveva ritrovato un notevole entusiasmo, soprattutto dopo aver assunto il ruolo di regista che gli stava dando molte soddisfazioni. In quanto all’amore, beh quello non faceva parte dei suoi programmi. Ci aveva rinunciato molti anni prima, soffrendo come un cane, e non era più disposto a mettere in gioco il proprio cuore. D’altra parte il fascino che in maniera tanto naturale emanava non passava assolutamente inosservato, di questo era ben consapevole ormai e le ammiratrici non smettevano di ricordarglielo. Dovunque andasse, ad un evento mondano o in qualche locale, non impiegava molto ad attirare l’attenzione delle donne presenti. Le più giovani e timide gli si avvicinavano accontentandosi di un autografo mentre le donne della sua stessa età o anche più mature osavano andare oltre e spesso si ritrovava nelle tasche della giacca bigliettini con numeri di telefono o addirittura indirizzi. Ormai aveva imparato a gestire questo tipo di situazioni e, se una volta potevano infastidirlo, adesso riusciva persino a trarne divertimento, ogni tanto.
Quella mattina invece, appena Terence Graham fece il suo ingresso nel cortile dell’ospedale, non gradì particolarmente l’assalto di alcune studentesse che lo avevano notato scendere dall’auto insieme a Mr. Hathaway. Si era evidentemente sparsa la voce che il figlio di Miss Baker, appena sbarcato al porto di New York, sarebbe passato a farle visita il prima possibile. Le studentesse del secondo anno di medicina che stavano svolgendo un tirocinio all’interno del reparto di cardiologia non si sarebbero fatte sfuggire di sicuro l’occasione per poter ammirare da vicino Terence Graham. Inoltre il bell’attore mancava dagli Stati Uniti da molto tempo ed era arrivato dall’Inghilterra appositamente per stare vicino alla madre, dunque con ogni probabilità sarebbe ripartito non appena possibile.
- Ragazze per favore, fateci passare, Terence non è qui per firmare autografi – tentò di dissuaderle Robert, facilitando l’ingresso del ragazzo nella stanza dove era ricoverata Eleanor.
Per fortuna le tirocinanti vennero richiamate all’ordine dal medico di turno in quel momento, il quale non esitò a rimproverarle severamente, minacciando di annullare il tirocinio se la cosa si fosse ripetuta.
- Terry finalmente … quanto tempo … - lo salutò la madre seduta in una poltrona, allargando le braccia verso di lui.
- Mamma, come stai? – le chiese Terence, piegandosi in avanti per salutarla.
- Va tutto bene … dio mio lasciati guardare, sei una meraviglia! Adesso capisco cos’era tutto quello schiamazzo fuori dalla porta. Hai di sicuro gettato nello scompiglio l’intero ospedale!
- Oh mamma smettila, dimmi di te piuttosto, che cosa è successo?
Miss Baker raccontò al figlio come erano andate le cose, senza scendere troppo nei dettagli, non voleva infatti che lui pensasse che l’avesse fatto venire senza un motivo valido. In realtà un motivo c’era ed era anche di fondamentale importanza secondo lei, ma non riguardava la sua salute e ad essere sinceri nemmeno la nostalgia di rivederlo. No, il motivo principale era un altro, ma l’attrice non sapeva come avrebbe fatto a dirlo al figlio e soprattutto non immaginava come lui avrebbe potuto reagire a quella notizia. Decise per cui di fargli qualche domanda per tastare il terreno, anche se era ben cosciente di quanto fosse difficile farlo parlare della sua vita privata.
- Raccontami qualcosa di te, come vanno le cose a Stratford?
- Molto bene direi. Ogni spettacolo fa sempre il tutto esaurito e anche la critica non lesina giudizi più che positivi sul mio modo di lavorare. In questo momento poi l’Inghilterra è un paese molto stimolante, in pieno fermento culturale, soprattutto l’esperienza deludente della guerra ha cambiato le cose.
- Vedo nei tuoi occhi una nuova luce rispetto a quando sei partito e questo non può che rendermi felice. Sono molto orgogliosa di te, ero sicura che ce l’avresti fatta ad affrontare nel migliore dei modi anche questa sfida! Ma …
- Ma?
- Mi parli sempre e solo di lavoro, mi piacerebbe sentire lo stesso entusiasmo anche per qualcos’altro.
- Ad esempio?
- Ad esempio la tua vita privata … lo so che è un argomento di cui non parli volentieri, soprattutto con tua madre immagino, però saperti felice e appagato anche da quel punto di vista sarebbe motivo di grande gioia per me.
Terence abbassò lo sguardo, con un accenno di sorriso e un leggero imbarazzo.
- Non ho una ragazza fissa se è questo che vuoi sapere, ma non mi lamento. Argomento chiuso, ok?
- Immaginavo che mi avresti liquidato così, ma non riesco a credere che un uomo come te, a cui sicuramente non mancano le occasioni, non abbia ancora trovato ….
- Mamma ti prego. Adesso pensa solo a riposarti, ci vediamo domani! – la interruppe salutandola con un tenero bacio sulla guancia.
Appena uscito dalla stanza Robert lo informò che se voleva parlare con il medico che seguiva Eleanor poteva farlo, dal momento che un’infermiera l’aveva appena informato che il cardiologo in questione era disponibile.
Intanto Miss Baker, rimasta sola in camera, ripensava al dialogo avuto con il figlio. Terence le era apparso davvero in ottima forma, ormai era un uomo. Il fascino e il carisma che già da ragazzino lo rendevano speciale adesso, raggiunta la piena maturità sia fisica che mentale, ne facevano una creatura unica di fronte alla quale era impossibile per chiunque restare indifferente.
Tuttavia alla domanda sulla sua vita privata, i suoi splendidi occhi erano stati attraversati da un’ombra che aveva cercato di mascherare con un leggero sorriso. Le aveva confidato comunque che nessuna ragazza in particolare aveva preso stabile dimora nel suo cuore e questo era proprio ciò che la madre voleva sapere.
Terence, accompagnato da Robert e da un’infermiera, percorse un lungo corridoio, lasciando dietro di sé al suo passaggio una scia interminabile di mormorii e gridolini trattenuti, prima di fermarsi davanti ad una porta bianca dove era indicato il nome del cardiologo a cui lui non fece troppo caso. L’infermiera stava per bussare quando dall’interno qualcuno aprì, continuando a parlare per alcuni istanti con un’altra persona che si trovava dentro la stanza. Terence riuscì a percepire una voce femminile che per un attimo gli sembrò avere un tono familiare anche se più … più … maturo.
- Mr. Graham ben arrivato. È un vero piacere fare la sua conoscenza, sono il dottor Evans, primario di questo reparto e le confesso di essere un suo grande ammiratore, come di Miss Baker del resto.
- La ringrazio molto dottor Evans, è stato lei ad occuparsi di mia madre?
- Oh no, non io, anche se ho monitorato sempre la situazione, sua madre è stata affidata ad uno dei nostri migliori cardiologi non si preoccupi. Ne stavamo appunto parlando e credo che lei sia qui per questo.
- Certamente, se mi è consentito vorrei parlare direttamente col medico che ha seguito Eleanor.
- Mi segua, entri pure. Sono sicuro che il dottore sarà ben lieto di fornirle tutte le informazioni di cui ha bisogno. È sempre molto disponibile!
Terence fece il suo ingresso nello studio medico, dietro al primario, un tipo decisamente troppo loquace per i suoi gusti.
La stanza era vuota. Da una porta socchiusa sul lato sinistro si poteva percepire un confuso parlottare ad intermittenza, come se qualcuno stesse parlando al telefono. Di nuovo quella strana sensazione di una voce conosciuta fece pulsare per un attimo le tempie dell’attore. Il dottor Evans gli fece cenno di accomodarsi, poi si affacciò alla porta e comunicò alla persona che era al telefono che il figlio di Miss Baker la stava aspettando per avere notizie della madre. Un rumore improvviso, come di un oggetto pesante caduto sul pavimento, fece voltare Terence verso il primario il quale, con un’espressione colma di orgoglio, gli presentò il dottor Ardlay.
All’udire quel cognome Terence non poté fare a meno di sgranare gli occhi e, quando il dottor Ardlay fece la sua apparizione, l’attore scattò in piedi preso dall’improvviso desiderio di uscire dalla stanza.
- Il dottor Ardlay è il nostro fiore all’occhiello, sa Mr. Graham. È un giovane cardiologo molto promettente e altamente qualificato, abbiamo fatto di tutto per averlo qui con noi a New York, anche se è stato molto difficile convincerlo, alla fine, improvvisamente, ha deciso di accettare e noi ne siamo stati ben lieti.
- Non ne dubito – mormorò Terence che adesso capiva il motivo per cui quella voce lo avesse tanto colpito.
- Salve Terence, come stai?
- Bene … e tu?
- Molto bene, ti ringrazio. Vogliamo sederci?
Il primario li guardava con l’impressione di essersi perso qualcosa, poi capì che evidentemente i due si conoscevano.
- Mi perdoni dottor Evans se non gliel’ho detto prima. Conosco Terence, cioè il signor Graham, da molto tempo. Abbiamo frequentato la stessa scuola a Londra quando eravamo due ragazzini poi … le nostre strade hanno preso direzioni diverse e ci siamo persi di vista.
Ci fu un momento di silenzio presto interrotto da un insistente mormorio proveniente dall’esterno.
- Ma cosa succede? – si chiese Evans perplesso.
- Mi scusi ma credo che sia mia la colpa. Qualcuno deve avermi riconosciuto e … non intendevo creare tutto questo scompiglio, sono desolato! – esclamò Terence tentando di distogliere lo sguardo dal dottor Ardlay.
- Non si preoccupi signor Graham, non deve assolutamente scusarsi. Adesso ci penso io.
Detto questo il dottor Evans aprì la porta richiudendola subito dopo alle sue spalle, lasciando filtrare solo per un attimo il chiacchiericcio proveniente dall’esterno. In pochi istanti tornò il silenzio, evidentemente la vista del primario aveva avuto l’effetto desiderato. Non si sentiva volare una mosca. Anche nello studio del dottor Ardlay era calato il gelo.
- Immagino che tu sia qui per avere notizie di tua madre – balbettò il cardiologo cercando di mantenere un contegno il più possibile professionale.
- Si – rispose Terence laconico.
Il dottor Ardlay raccontò al figlio di Miss Baker cos’era successo e poi illustrò tutte le varie ipotesi che erano state prese in considerazione ma che per fortuna erano state a mano a mano scartate, riducendo infine l’episodio di cui era stata vittima la madre ad una naturale reazione dovuta ad un eccessivo carico di lavoro e di stress. Per cui l’unica cura che si sentiva di prescriverle era quella di un periodo di assoluto riposo e successivamente una ripresa graduale della sua attività di attrice, cercando di ridurre per quanto possibile gli impegni che la costringevano a lunghi viaggi da una parte all’altra degli Stati Uniti e non solo.
Terence aveva ascoltato con la massima attenzione quanto gli era stato riferito, giungendo alla conclusione che la madre evidentemente aveva richiesto la sua presenza a New York, non per le sue condizioni di salute che non sembravano affatto preoccupanti, bensì per un altro motivo che in quel momento si trovava seduto davanti a lui con indosso un camice bianco!
- Ti ringrazio molto per quello che hai fatto per mia madre e ti faccio i miei complimenti, non sapevo che fossi diventata medico.
- Ho fatto solo il mio lavoro e … due anni fa ho terminato gli studi e l’anno dopo mi hanno chiamato a lavorare a New York.
- Il dottor Evans ha molta stima di te.
- È un ottimo medico e poter lavorare con lui è davvero una grande opportunità per me anche perché farsi strada in questo ambiente non è molto semplice … per una donna.
- Immagino. Adesso devo proprio andare – concluse Terence alzandosi.
- Eleanor verrà dimessa probabilmente fra un paio di giorni, tornerai a trovarla?
- Certo, arrivederci Candy.
- Arrivederci Terence.
Appena la porta si richiuse Candy cadde sfinita sulla poltrona dietro alla scrivania, come stordita da ciò che era appena accaduto. Fino a pochi istanti prima lui era lì, seduto davanti a lei. Aveva forse sognato? No, si erano parlati e il suo profumo che ancora aleggiava nella stanza ne era la prova più evidente. Candy tirò un profondo sospiro tentando invano di rallentare il proprio battito cardiaco. Il contegno che si era sforzata di tenere davanti a lui l’aveva ora abbandonata completamente e una sensazione di assoluta incapacità di controllare pensieri ed emozioni si era impossessata di lei. Le tremavano le mani.
D’un tratto aprì un cassetto e sotto una pila di pubblicazioni scientifiche estrasse una rivista risalente a qualche mese prima. L’aprì alla pagina dove aveva messo un segno e lesse in silenzio alcune righe:
- Dunque nonostante il suo indiscutibile fascino per cui l’intero genere femminile farebbe follie, intende farci credere di non essere mai stato innamorato?
- Esattamente.
- E il suo rapporto con la collega Susanna Marlowe come lo definirebbe?
- Si è appena dato la risposta da solo: Susanna era semplicemente una collega.
Un vociare proveniente dal cortile dell’ospedale interruppe i suoi pensieri. Si alzò, andando verso la finestra e lo vide. Terence se ne stava al centro di un gruppo di ragazze, accerchiato senza possibilità di movimento, firmando autografi a ripetizione. Lanciava sorrisi a chi insistentemente lo chiamava per attirarne l’attenzione. Pensandoci meglio sembrava così diverso da come si era comportato con lei poco prima: dopo che lei gli aveva parlato della madre, il loro dialogo si era limitato a brevi frasi cordiali, niente di più. Senza dubbio era rimasto sorpreso nel trovarla lì, a New York, nel vederla nelle vesti di medico, ma non sembrava di certo sconvolto, al contrario di lei che era quasi caduta dalla sedia quando il dottor Evans le aveva comunicato la presenza del figlio di Miss Baker. In mezzo a quelle ragazze urlanti appariva sereno e disinvolto, quasi divertito.
Ad un certo punto lo vide alzare le mani come in segno di resa e cercare di dirigersi a fatica verso l’auto che l’attendeva. Prima di salire si voltò di scatto verso l’alto, come se qualcuno lo avesse chiamato. I loro occhi si incrociarono per un attimo, a Candy si fermò il respiro. Era certa che l’avesse vista, ma subito dopo lui scomparve dentro l’auto senza il minimo cenno di saluto.
Nei due giorni che seguirono, Terence tornò più volte in ospedale per far visita alla madre, evitando accuratamente gli orari in cui sapeva essere presente Candy. Ad Eleanor non aveva detto niente riguardo a quell’incontro anche se era certo che lei ne fosse al corrente. Non voleva affrontare l’argomento per ora, non prima del suo ritorno a casa. A quel punto ne avrebbero parlato.
Capitolo due
New York, agosto 1924
Eleanor Baker venne dimessa dall’ospedale dopo circa dieci giorni. Si sentiva ancora un po’ frastornata e dovette riconoscere che un periodo di riposo le avrebbe sicuramente fatto bene. Ad aspettarla a casa, nella sua lussuosa villa di Long Island, il figlio che aveva preferito non recarsi in ospedale dal momento che ogni volta in cui aveva fatto visita alla madre si era creato sempre un po’ di scompiglio. New York era molto diversa da Stratford e difficilmente Terence Graham riusciva a sfuggire l’assalto di giornalisti e ammiratori.
- La ringrazio Catherine, adesso può andare, ci penso io a mia madre.
Con queste parole Terence congedò l’assistente personale dell’attrice e accompagnò Eleanor in un grande salone dove due enormi ventilatori appesi al soffitto rendevano l’aria un po’ più respirabile.
- Finalmente a casa! – esclamò l’attrice sedendosi su una elegante poltrona in vimini.
- Detto da te che ami essere sempre in giro, fa uno strano effetto!
- Non posso darti torto, ma in questi giorni di riposo forzato credo di aver capito che ogni tanto mi piacerebbe concedermi una bella vacanza. Di certo non in un ospedale, piuttosto proprio a casa! Da quando ho acquistato questa proprietà avrò trascorso qui solo qualche mese. Anche tu dovresti prenderti una pausa ogni tanto.
Terence la guardò perplesso.
- Il mio lavoro è la mia vita, non ho bisogno di una pausa! – esclamò preparandosi un Manhattan, davanti al mobile bar.
- Che intendi dire? Non vorrai ripartire subito per l’Inghilterra?
- Beh in effetti ho molte cose ancora da mettere a punto per il nuovo spettacolo prima che inizino le prove.
- Ma Terence sei appena arrivato, speravo tanto per una volta di potermi godere un po’ mio figlio! E poi Long Island è molto divertente in agosto, piena di vita, si danno un sacco di feste … potrebbe piacerti!
- Mamma! – esclamò l’attore con aria scettica.
- Lo so che le feste non sono la tua passione … sto solo cercando un motivo valido per convincerti a restare, almeno per un paio di settimane.
Terence le si avvicinò, sedendosi sul divano e rivolgendo alla madre uno sguardo pieno d’affetto.
- Facciamo una settimana, ok?
- Una sola settimana?
- Una soltanto, prendere o lasciare!
Miss Baker non poté far altro che acconsentire, anche se a malincuore, e poi c’era quella questione in sospeso di cui ancora non gli aveva parlato. Era sicura che Terence l’avesse incontrata ma non aveva fatto il minimo cenno al riguardo.
- Però se tu rimanessi qualche giorno in più potresti rivedere qualche vecchio amico, non ti farebbe piacere?
Terence sorrise, un po’ stupito dalla goffaggine della madre.
- Non mi sembra di aver mai avuto molti amici a New York! Ti riferisci a qualcuno in particolare? – le chiese incrociando le braccia, dopo aver terminato con un sorso il suo drink.
- Beh non saprei … - balbettò Eleanor, esitando ancora nel far saltar fuori quel nome che le bruciava nella gola – Potrebbe trattarsi anche di un’amica.
Esasperato Terence sospirò profondamente, cambiando espressione e facendosi scuro in volto.
- Non capisco che cosa tu abbia in mente, ma poiché ho un appuntamento tra mezzora, o ti decidi a parlare oppure me ne vado!
- Un appuntamento … e con chi?
Il figlio la guardò serio ancora un istante prima di alzarsi dal divano e dirigersi verso la porta.
- Aspetta Terence … so che hai visto Candy e ho pensato che …
- Te l’ha detto lei?
- Sì.
- È vero, avresti potuto dirmi che era il tuo cardiologo … in ogni caso non ho alcuna intenzione di rivederla! – le rispose deciso senza voltarsi, prima di uscire dal salone.
L’ippodromo di Belmont Park era uno dei luoghi preferiti di Terence. Prima di trasferirsi in Inghilterra, ci andava spesso, soprattutto quando qualcosa lo angustiava o lo rendeva nervoso. I cavalli erano fin da piccolo una delle sue più grandi passioni. Li ammirava per la loro eleganza unita ad una straordinaria forza che li rendeva capaci di sopportare qualsiasi fatica e poi quel gran senso di libertà e leggerezza che provava ogni volta che cavalcava lo aveva spesso aiutato a schiarirsi le idee.
Al Belmont ormai lo conoscevano bene e la sua presenza era sempre gradita. Aveva avvisato il giorno prima che sarebbe passato per cui, quando arrivò, il suo cavallo era già pronto. Le corse durante il mese di agosto erano sospese, la pista era libera e Terence, nella sua splendida tenuta da equitazione, si lanciò al galoppo in sella a Tristan, un purosangue inglese con un abbagliante mantello grigio.
In assenza di gare l’ippodromo quel giorno era poco frequentato, tuttavia alle poche signore presenti non sfuggì quel cavaliere che sembrava voler divorare la pista e quando, dopo aver fatto diversi giri, si fermò scendendo da cavallo e avviandosi verso la scuderia, qualcuna di loro avendolo riconosciuto osò avvicinarsi. Terence si soffermò dunque a firmare alcuni autografi, una routine alla quale ormai difficilmente poteva sottrarsi. Liquidate le ammiratrici, il suo sguardo incrociò quello di un uomo dall’aspetto familiare. Era un uomo molto ben vestito, decisamente alla moda, occhi e capelli nocciola tirati indietro a scoprire un volto dai tratti eleganti e sofisticati. Stava parlando presumibilmente di affari con altri due seduti con lui. Appena si rese conto di essere osservato alzò il viso verso quell’uomo dall’aria accaldata che teneva strette le briglie del proprio cavallo e, avendolo riconosciuto subito, si alzò dal tavolo e gli andò incontro per salutarlo.
- Terence!
- Cornwell, sei proprio tu?
- Archibald Cornwell in persona! Che ci fai a New York? Ti credevo in Inghilterra in pianta stabile ormai.
- Sono qui per mia madre, è stata poco bene e quindi …
- Miss Baker non sta bene?
- Niente di grave, solo un po’ di stress, adesso è tutto a posto. I medici le hanno prescritto un periodo di riposo.
- È stata in ospedale quindi?
- Sì, al Bellevue per circa dieci giorni.
- Al Bellevue Hospital?
- Sì.
- Che strano … non lo sapevo …
I due uomini si guardarono per un istante, in silenzio. Archie avrebbe voluto fare altre domande a Terence ma il loro dialogo venne interrotto dall’arrivo di un ragazzo che sembrava conoscere molto bene l’attore.
- Graham accidenti a te, torni in città ed io non ne so niente?
- Ciao Jean Paul, come stai? Mi sembri in gran forma.
- Me la passo piuttosto bene! Ma tu … fatti guardare, bello come il sole, il solito sciupafemmine dì la verità!
Terence tossì come se gli fosse andato un elefante di traverso, poi rivolto verso Archie gli presentò l’amico. Si trattava di Jean Paul Moreau, un musicista che aveva conosciuto una sera in un modo piuttosto rocambolesco, ovvero salvandolo da alcuni brutti ceffi che volevano dargliele di santa ragione. Terence era intervenuto e da quel momento tra loro si era creato un feeling particolare. Jean Paul era di origine francese, molto esuberante, a volte anche troppo, ma estremamente sincero. Nel periodo più buio per Terence, dopo la morte di Susanna, in cui non sapeva quale direzione avrebbe preso la sua vita, Jean si era dimostrato un vero amico.
- Piacere di conoscerla, ho avuto modo di ascoltarla suonare il mese scorso al Cotton Club, le faccio io miei complimenti, davvero un’esecuzione sopraffina la sua – dichiarò Archie con la sua abituale compostezza.
Davanti a tanta eleganza anche Jean Paul tentò di recuperare un certo contegno ringraziando Cornwell ed invitandolo ad ascoltarlo di nuovo il sabato successivo.
- Ci sarà un fantastico programma sabato prossimo al Cafè Society, con tutti i migliori musicisti del momento, compreso il sottoscritto naturalmente!
- Sempre il solito modesto! – esclamò Terence ridacchiando.
- Non fare il furbo Graham, anche tu sei invitato e non provare a dirmi di no, me lo devi dopo che non mi hai avvisato del tuo ritorno!
Era inutile, a Jean Paul davvero non si poteva dire di no!
Terminato il suo incontro d’affari al Belmont Park, Archibald Cornwell fece ritorno a casa. Abitava con la moglie, a cui si era legato in matrimonio l’anno precedente, in una lussuosa villa poco distante da Central Park, in una delle zone più eleganti di New York.
Subito dopo le nozze, Cornwell e signora si erano trasferiti da Chicago nella Grande Mela dove gli Ardlay avevano da poco aperto una delle loro banche che il giovane rampollo dirigeva magnificamente.
Dopo alcuni mesi anche la cugina li aveva raggiunti, essendo stata assunta al Bellevue Hospital.
Archie trovò molto strano che Candy non gli avesse parlato del fatto che Miss Baker fosse stata ricoverata proprio in quell’ospedale. Lei doveva averla vista di sicuro, anzi probabilmente era stata una sua paziente e sapeva che lui era un grande ammiratore dell’attrice fin dai tempi del collegio. Perché non gli aveva detto niente? Forse perché aveva visto anche Terence?
- Non immaginerai mai chi ho incontrato al Belmont! – esclamò sfilandosi i guanti e rivolgendosi alla moglie intenta a sistemare dei fiori in salotto.
- Qualcuno che conosco? – rispose Annie curiosa.
- Qualcuno che conosciamo molto bene entrambi, ma che non vediamo da molto tempo – proseguì Cornwell con un tono di mistero nella voce.
Annie lo guardò con aria interrogativa, in attesa che lui svelasse l’identità della persona in questione.
- Terence!
- Intendi dire Terence Granchester? – chiese la moglie sgranando gli occhi.
- Proprio lui, anche se ormai si fa chiamare Graham.
Archie proseguì riferendo alla moglie ciò che l’ex compagno di scuola gli aveva raccontato a proposito della madre e di come poi non avesse potuto approfondire l’argomento essendo stati interrotti dall’arrivo di un amico di Terence, Jean Paul Moreau, quel musicista che le era piaciuto molto al Cotton Club, qualche sera prima.
- Sono felice che Miss Baker si sia ristabilita, credo sia normale con il lavoro che fa, sempre in giro, senza mai una pausa, accusare a volte un momento di stanchezza. E Terence come sta?
- Splendidamente direi! Del resto le notizie che arrivano su di lui dall’Inghilterra non possono far pensare il contrario. Pare stia riscuotendo un grande successo anche come regista. Devo confessare che mi ha fatto un’ottima impressione, è stato molto cordiale e per niente arrogante come invece me lo ricordavo.
- Archie sono passati molti anni, è ragionevole pensare che anche Terence sia cresciuto, non ti pare?.
- Certamente tuttavia … c’è una cosa che mi è sembrata alquanto strana. Mi ha detto che Miss Baker è stata ricoverata al Bellevue.
- E con ciò?
- Non ti stupisce il fatto che Candy non ci abbia detto niente?
- Beh … se lo sarà dimenticato o forse non era autorizzata a spargere la voce dal momento che la Baker è un personaggio pubblico. La notizia non è apparsa nemmeno sui giornali.
- Questo è vero, avrà dovuto mantenere un certo riserbo però …
- Però?
- Il ritorno di Terence Graham a New York era su tutti i quotidiani e anche di questo Candy non ha fatto parola. Lui sarà andato di sicuro a trovare la madre, non credi che lo abbia incontrato?
Annie in un primo momento non aveva pensato a quell’evenienza e la cosa la fece riflettere. Ricordò alcuni atteggiamenti di Candy che le erano apparsi insoliti nei giorni precedenti: piuttosto taciturna, cosa decisamente inconsueta per lei, aveva accusato spesso di essere stanca ritirandosi molto presto nella sua stanza. L’idea che lo avesse rivisto le sembrò plausibile e la stupì il fatto che non gliene avesse parlato. Forse semplicemente Candy non lo aveva ritenuto importante.
- Sono trascorsi molti anni dall’ultima volta che si sono visti … non credo che il fatto che lui sia a New York possa in qualche modo turbarla …
- Annie … pensi davvero quello che hai appena detto? – le chiese il marito con aria scettica.
- In effetti non abbiamo più parlato di lui, non so quanto ancora possa occupare i suoi pensieri. Da quando è a New York, qui con noi, mi è sembrata molto tranquilla, felice ed orgogliosa del suo lavoro. Ho l’impressione che abbia raggiunto un certo equilibrio e …
Il marito la interruppe guardandola in un modo che sembrava voler far crollare tutte le misere certezze della moglie. La domanda che le pose subito dopo dette loro il colpo di grazia.
- È mai uscita con qualcuno da quando è qui?
- Questo non significa niente! Candy non è una ragazza frivola, se esce con qualcuno è perché quella persona le piace veramente e la ritiene interessante, non solo per passare del tempo – obiettò Annie.
- Non avendo sostanzialmente una vita sociale sarei curioso di sapere come farà Candy a conoscere qualcuno di interessante!
- So che a Chicago ha frequentato un ragazzo per un po’, ma qui a New York è stata davvero molto impegnata con il lavoro in questi mesi, sono sicura che appena sarà più tranquilla …
- E se l’aiutassimo noi a divertirsi un po’? Sabato prossimo al Cafè Society ci sarà un grande spettacolo, con i migliori musicisti jazz del momento. Potremmo andare insieme e magari chiedere a Candy se vuole invitare qualcuno … cosa ne pensi?
- Glielo chiederò, sperando che non abbia il turno in ospedale.
*****
Il Cafè Society era un locale molto di moda in quegli anni. Vi si esibivano i migliori artisti di musica jazz e la clientela era composta sia da bianchi sia da afroamericani. Si trovava nel quartiere di Greenwich Village, non lontano dal vecchio appartamento di Terence, dove lui non abitava da tempo, ma che non aveva mai venduto.
L’interno della sala era pieno di gente, con molti tavoli già occupati, quando Miss Ardlay insieme ai signori Cornwell fece il suo ingresso. La musica allegra che la investì la mise subito di buon umore. In effetti ultimamente si era dedicata poco alla vita sociale, non aveva memoria dell’ultima volta in cui era uscita a divertirsi. Certo il nuovo lavoro a New York l’aveva assorbita quasi del tutto e messa a dura prova. Poi c’era stato quell’incontro. Non poteva negare che aver rivisto Terence l’aveva del tutto scombussolata e si chiedeva se ci sarebbe stata di nuovo l’occasione di potergli parlare.
- Ecco il nostro tavolo! – esclamò Archie che aveva prenotato un posto molto vicino al palco dove si esibivano i musicisti.
Il primo gruppo di musicisti aveva già suonato e altri artisti stavano sistemando gli strumenti. Continuava ad arrivare gente e c’era molta eccitazione nell’aria. Un vociare continuo e indistinto, tra cui spiccava ogni tanto un grido o qualche espressione piuttosto colorita. Persone che si salutavano, uomini che invitavano le signore a ballare, chi fumava e chi sorseggiava un drink.
Annie e Candy si guardavano intorno mentre un cameriere serviva loro da bere. La bruna commentava senza pietà l’abbigliamento di tutte le signore che le passavano accanto, scandalizzandosi per ogni abbinamento di colori che considerava inguardabile, la bionda semplicemente osservava con piacere quella mescolanza di persone che si erano date appuntamento in quel luogo, attratte da quel nuovo genere musicale che aveva conquistato anche New York.
E fu proprio la musica l’indiscussa protagonista della serata. Per più di un’ora melodie jazz e blues presero vita coinvolgendo tutti i presenti, con la loro grande carica ritmica. La band di Fletcher Henderson, di cui all’epoca faceva parte nientemeno che Louis Armstrong, deliziò il pubblico con un’esibizione assolutamente eccezionale.
Archie fece ballare le sue due accompagnatrici, alternandosi volentieri e ricevendo i complimenti della cugina che non ricordava fosse un ballerino così esuberante.
- Caro cugino sono esausta e non è facile riuscire a stancarmi!
- Candy … sei fuori allenamento!
- Per fortuna domani non devo lavorare, altrimenti credo che non ce l’avrei proprio fatta a stare in piedi!
Annie che all’ultimo giro era rimasta seduta, aveva notato una strana agitazione all’ingresso, come se fosse arrivata una celebrità. Del resto il locale era pieno di personaggi famosi, artisti di ogni genere soprattutto, ma anche politici ed esponenti dell’alta finanza.
- Sono proprio curiosa di sapere chi è appena entrato tanto da provocare un tale trambusto! Archie guarda … quello non è il musicista che abbiamo ascoltato tempo fa e che mi era piaciuto molto?
- Sì Annie, si chiama Jean Paul Moreau, un pianista emergente davvero niente male, ma non credo sia così famoso da scatenare una tale eccitazione tra le signore! Piuttosto …
- Ma quello non è Terence! – esclamò Annie, voltandosi immediatamente verso Candy per osservare la sua reazione.
Candy non rispose, alzò leggermente la testa per accertarsi che Annie non si fosse sbagliata. No, non si era sbagliata, era proprio lui che insieme all’amico musicista tentava di raggiungere probabilmente un tavolo libero, facendosi strada tra una schiera di ragazze impazzite.
Quando finalmente riuscirono a sedersi, un cameriere servì subito loro da bere. Altri ragazzi si fermarono a salutarli. A Candy parve di distinguere alcuni attori e attrici che aveva visto in fotografia sui giornali. Il loro tavolo non era molto lontano e lei non doveva voltarsi per poterlo guardare, anche se non poteva vedere Terence in volto perché rimaneva di spalle. Era molto elegante, indossava uno smoking che sembrava essergli stato cucito addosso, con i capelli tirati indietro anche se un ciuffo ribelle si ostinava ad accarezzargli la fronte e lui ogni tanto lo riavviava con la mano. Rilassato e sorridente, si accese una sigaretta.
Non era troppo tardi ma comunque il locale iniziava a svuotarsi perché la band più attesa aveva terminato la sua esibizione e adesso sarebbero saliti sul palco probabilmente alcuni artisti poco conosciuti che ancora non si erano fatti un nome nel panorama musicale.
- Ora dovrebbe essere il turno di Jean Paul Moreau, non è molto famoso ma l’ultima volta che l’ho ascoltato mi ha decisamente impressionato. Credo proprio che ti piacerà Candy.
- Come dici Archie?
Candy non aveva minimamente prestato attenzione alle parole del cugino. Da qualche minuto infatti i suoi pensieri erano totalmente catturati da una sola persona. Archie se ne era accorto e mentre Jean Paul eseguiva il suo primo brano al pianoforte, lui osservava attentamente l’atteggiamento di Candy.
Dopo un paio di pezzi che avevano riscosso un notevole gradimento da parte dei presenti, Jean Paul si alzò dal pianoforte e andò davanti al microfono, intenzionato a fare un annuncio.
- Signore e signori vi ringrazio per l’accoglienza e per la vostra calorosa partecipazione che sono sicuro diventerà ancora più calorosa tra qualche istante, quando salirà sul palco un grandissimo artista nonché mio carissimo amico. Vi sarete già accorti della sua presenza in sala dal momento che non passa decisamente inosservato. Manca da New York da molto tempo, ma non per questo il ricordo delle sue incredibili interpretazioni a teatro è svanito. Purtroppo non è tornato per deliziarci con la sua arte drammatica, ma questa sera potremo godere almeno delle sue doti canore. Non intendo dilungarmi oltre e invito a salire sul palco Terence Graham!
Terence seduto al tavolo esitò ad alzarsi e fece cenno di no con una mano, ma l’applauso del pubblico era già partito e Jean Paul gli lanciò un’occhiata suggerendogli che non poteva deluderlo. L’attore fu costretto a raggiungere l’amico sul palco.
- Che cosa ti è saltato in mente Jean! – mormorò all’orecchio del francese, tentando comunque di sorridere.
- E dai Terence, come ai vecchi tempi – gli rispose l’amico strizzandogli l’occhio.
Agli inizi della loro conoscenza infatti Jean Paul trascinava spesso Terence nei locali dove lui si esibiva e in più di un’occasione si erano divertiti a suonare e cantare insieme.
Mentre si toglieva il papillon e si slacciava il primo bottone della camicia, con un gesto che fece rabbrividire l’intero genere femminile presente in sala, Terence chiese all’amico pianista quale brano aveva pensato di eseguire.
- Che ne diresti di One night with you?
Terence scosse la testa sorridendo prima di impossessarsi del microfono. Una luce si diresse improvvisamente su di lui, provocando un leggero brusio di stupore e impedendogli di vedere oltre il palco.
Jean Paul si posizionò al pianoforte, facendo scrocchiare le dita delle mani con un gesto plateale, mentre Terence si sedette su uno sgabello con una gamba piegata e l’altra poggiata a terra. Si scambiarono un ultimo sguardo d’intesa e poi la prima frase riempì la sala, prendendo vita grazie alla splendida voce dell’attore, subito dopo partì la musica.
Capitolo quattro
- Sei un bastardo, non me lo sarei mai aspettato da te … sei un bastardo!
- Aspetta Jean, ascoltami.
- No, non ti ascolto! Ed io che ti consideravo un amico … che cosa hai voluto dimostrare eh? Che sei il migliore, il più figo di tutti! Che puoi avere tutte le donne che vuoi?
- Non ho voluto dimostrare niente, se solo tu ti dessi una calmata e mi lasciassi spiegare …
- Lo sapevi, lo sapevi che lei mi piace! C’era bisogno di arrivare a questo punto? Accidenti a te Graham! Non ti era bastato vincere la gara, dovevi proprio baciarla?
- Infatti non l’ho baciata!
- Vorresti farmi credere che è stata lei? Ti ha costretto, non è così? Che vigliacco … non ti prendo a pugni perché non voglio sporcarmi le mani!
- Jean la vuoi finire! Non c’è stato nessun bacio ok!
Gli avevo gridato in faccia quelle ultime parole e lui si era bloccato fissandomi, corrugando la fronte.
Era ormai l’alba. La festa di compleanno di Jane era terminata e gli ultimi invitati se ne stavano andando. Dopo la gara in piscina, avevo visto Jean Paul correre via, arrabbiato. Conoscevo il motivo del suo atteggiamento e mi dispiaceva molto avergli fatto credere che tra Jane e me ci fosse stato un bacio. Lei gli piaceva molto, Jean Paul me lo aveva confidato la sera prima, la sua reazione era più che normale.
- Ascoltami, ti chiedo scusa … avrei dovuto avvisarti e mi dispiace non averlo fatto, ma ti assicuro che non c’è stato niente e che non ci sarà mai niente tra Jane e me!
- Ma allora … perché? – mi chiese stupito.
- Ho chiesto io a Jane di mettere su quella gara, ma era tutto calcolato. Se avessi vinto io non ci sarebbe stato nessun bacio, solo una messinscena. Ora però non posso spiegarti il perché.
- Mi stai dicendo la verità?
- Jean ti ho mai mentito forse?
- No.
Dopo quel chiarimento salimmo sulla sua auto e mi riaccompagnò a casa. Prima di scendere però mi fece una domanda.
- Di’ la verità Terence, c’entra Candy in tutta questa storia?
Sospirai senza rispondergli.
- Guarda che se volevi farla ingelosire ci sei riuscito alla grande, anche se a parer mio non ne hai bisogno: è pazza di te!
- Non volevo assolutamente farla ingelosire.
- Scusami ma non ti seguo.
- Perdonami Jean Paul … è una storia lunga ed ora è un po’ tardi per raccontarla.
- Ma lei ti piace e molto anche!
- Buonanotte Jean e scusami ancora.
- Buonanotte Terence … anzi buongiorno! – esclamò sorridendo.
Entrai in casa e mi gettai nel letto ancora vestito. Appena chiusi gli occhi mi apparve l’immagine di Candy: la sua espressione delusa quando l’avevo guardata dopo la scena del bacio mi faceva male. Ma ero sempre più convinto che ciò che avevo fatto fosse necessario. Non volevo assolutamente che si illudesse: tra noi non doveva esserci più niente.
Ripensai alle parole di Jean: “lei è pazza di te”. Volli credere che stesse esagerando. Dopo tutti quegli anni, no, non era possibile. Eppure quando mi aveva sorpreso a suonare la melodia che le insegnavo in Scozia e i nostri sguardi si erano incontrati, per un attimo mi era sembrato di essere tornati indietro nel tempo, come sospesi in quel sogno meraviglioso che era stato il nostro amore.
Ma quel sogno d’estate si era spento sotto una coltre di neve e dopo … solamente dolore. Sapevo bene quanto lei avesse sofferto dopo la nostra separazione e non potevo assolutamente permettere che accadesse di nuovo!
Mi svegliai quando il sole era già alto, mi sembrava di essere più stanco di quando ero andato a dormire. Avevo la testa pesante ed anche il cuore. Un domestico mi avvisò che il pranzo era servito, ma io non avevo fame anzi, un senso di nausea mi riempiva lo stomaco. Feci una doccia e scesi comunque per salutare mia madre.
- Ben alzato figliolo, anche se a giudicare dalla tua faccia non si direbbe! Sei rientrato molto tardi.
- Buongiorno mamma, si sono stato ad una festa – le risposi distrattamente, dandole un bacio e mettendomi a tavola. Poi dissi al cameriere di portarmi solo del tè nero, con del limone e senza zucchero.
- Non mangi niente?
- No, non ho fame.
- Mi dispiace molto che tu debba già ripartire, questa settimana è passata così in fretta!
- Lo so … ma quando starai meglio potrai venire a trovarmi, lo sai che a Londra ti aspettano tutti! – le dissi prendendole la mano.
- Vedremo – rispose un po’ avvilita.
Quando ci alzammo da tavola mi comunicarono che c’era una visita per me. Una persona mi aspettava in salotto, si trattava del signor Hathaway.
- Robert, che piacere vederti!
- Il piacere è mio Eleanor, sono felice di constatare che stai molto meglio, sei un incanto!
- Ti ringrazio. Se hai bisogno di parlare con Terence però vi lascio da soli.
- Oh no, resta pure. Vorrei proporre a tuo figlio una piccola cosa e, dal momento che credo proprio che mi dirà di no, magari la tua presenza potrebbe essermi utile!
Lo guardai storto e poi gli chiesi che cosa avesse da propormi.
- Non la tirerò troppo per le lunghe, so che non ami i giri di parole …
- Dunque?
- Che ne diresti di salire sul palco dopo lo spettacolo, per un piccolo omaggio al tuo pubblico che non ti vede da tempo ormai?
- Dopo quale spettacolo?
- Quello di domani sera.
- Domani sera?! E che cosa potrei mai preparare in così poco tempo?
- Andiamo Terence, se vuoi puoi fare qualsiasi cosa, anche improvvisare! Non è vero Eleanor?
Mia madre annuì sorridendo.
- Ho la vaga impressione che tu abbia già qualcosa in mente, sbaglio?
- Allora … hai presente la musica di Moreau che mi hai portato? Lo sai che non è niente male? Perché non ci fai qualcosa sopra? L’hai ascoltata no?
- Sì certo, effettivamente è molto bella … ma davvero non saprei …
- Oh Terry sarebbe magnifico vederti di nuovo sul palco! – esclamò Eleanor entusiasta.
- Vi siete messi d’accordo voi due?
- No credimi Terry, non ne sapevo niente … ma sarebbe davvero una grande emozione, ne sono sicura! Posso aiutarti se vuoi a scegliere qualcosa, che ne dici?
Sospirai, tentando un’ultima obiezione, dicendo che la mattina dopo sarei dovuto ripartire, non ce l’avrei mai fatta.
- Potresti anche rimandare di qualche giorno – suggerì mia madre con gli occhi pieni d’affetto con l’intenzione di farmi sciogliere. La guardai e lei capì che il mio no era diventato un si!
- D’accordo … vediamo cosa si può fare.
- Grazie Terence! Non sai in quanti mi hanno chiesto di te da quando si è sparsa la voce che ti trovavi a New York. Potrai fare qualsiasi cosa, andrà bene comunque.
- Robert ti ricordo che sei stato proprio tu a spingermi ad accettare il lavoro in Inghilterra.
- Lo so e sono molto orgoglioso di come stanno andando le cose, ma se un giorno tu volessi tornare alla Stratford, la porta è sempre aperta!
Detto questo mi abbracciò e ci salutammo. Avevo poco più di 24 ore per preparare un monologo sulla musica di Jean Paul e dovevo mettermi subito al lavoro o non ce l’avrei mai fatta.
*****
Il venerdì mattina rientrai a lavoro ancora mezza frastornata da quello che era accaduto alla festa, ma dovetti riprendermi alla svelta perché mi aspettava una lunga giornata, ma soprattutto una visita che mi metteva particolarmente in ansia.
- Buongiorno Miss Baker, come si sente?
- Buongiorno dottoressa, va molto meglio rispetto all’ultima volta che ci siamo viste.
- Le confermo infatti che le sue analisi sono tutte a posto, anche il livello dei globuli rossi che era un po’ basso è rientrato entro i giusti parametri, per cui credo proprio che pian piano possa tornare alla sua vita normale e soprattutto al suo lavoro.
- Il mio lavoro mi è mancato molto è vero, ma devo confessarti Candy che questo periodo di vacanza non mi è dispiaciuto affatto, soprattutto perché mi ha permesso di trascorrere un po’ di tempo con mio figlio. Era da molto che non lo vedevo.
Ci fu un momento di silenzio, non sapevo cosa dire ed Eleanor probabilmente si accorse del mio imbarazzo, ma sembrò voler affondare il colpo.
- E tu lo hai più visto?
- Beh sì, ad una festa, due giorni fa.
- Oh dunque c’eri anche tu al compleanno di Miss Williams, la conosci?
- Veramente no, ma abbiamo un amico in comune, è lui che mi ha invitato.
- Un amico?!
- Sì … Jean Paul Moreau, il musicista.
- Jean Paul … ma certo! È un caro amico anche di Terry … lo sai che questa sera faranno qualcosa insieme in teatro? Perché non vieni anche tu?
- Questa sera, in teatro? Non saprei …
- Ho qui con me qualche biglietto, te li lascio volentieri, mi farebbe davvero molto piacere. Prendilo come un piccolo ringraziamento per tutto quello che hai fatto per me.
- La ringrazio Miss Baker …
Mise i biglietti sulla mia scrivania e poi si alzò in piedi, guardandomi con infinita dolcezza.
- Sabato riparte lo sai?
- Lo so.
- Dopo lo spettacolo potresti salutarlo, se vuoi.
Dopo circa un’ora da quella visita lasciai l’ospedale e tornai a casa, il mio turno di lavoro era finito. Da sola, nella mia camera, rigiravo quel biglietto tra le mani e non riuscivo a pensare ad altro. Cercavo di mettere in ordine i miei pensieri. Se davvero avessi potuto parlarci dopo lo spettacolo, che cosa gli avrei detto? Cosa volevo sapere da lui? Se era fidanzato forse? Perché questa era di certo una possibilità: in questi giorni a New York mi aveva ignorato, molto probabilmente perché a Stratford aveva una ragazza o forse anche più di una. Un tipo come lui sarebbe mai potuto restare a lungo da solo? No di sicuro! Alla festa avevo visto con i miei occhi l’effetto che aveva sulle ragazze, la stessa Jane lo aveva definito bellissimo e affascinante ed era stata ben contenta di lasciarsi baciare!
E poi … Terence era molto più di questo. Il ricordo di lui, di quel ragazzo che avevo conosciuto e di cui mi ero innamorata, era ancora vivo dentro di me, ma temevo potesse trattarsi solo di un ricordo, di un sentimento che il tempo aveva come cristallizzato e che a contatto con il presente sarebbe svanito come neve al sole.
Ero assorta in questi pensieri quando entrò Annie. Parlammo un po’ della festa e di quello che era successo. Mi disse che non capiva l’atteggiamento di Terence e sinceramente neanche il mio.
- Sembra che abbiate paura di incontrarvi e di parlarvi. Non potreste comportarvi semplicemente come due amici?
Annie mi guardò in attesa della risposta, ma io non la conoscevo o forse non avevo il coraggio di ammettere quelli che erano i miei reali sentimenti. Esitai e allora rispose lei per me.
- Voi due non potrete mai essere solo amici. Ho indovinato?
- Temo di sì.
- Che cos’hai in mano?
- Sono alcuni biglietti per lo spettacolo teatrale di stasera. È venuta Miss Baker oggi per un controllo e me li ha portati.
Annie fece un gran sorriso e quando le chiesi il motivo mi rispose che sicuramente la madre di Terence sapeva molte più cose di noi. Io ero abbastanza scettica in proposito perché Terence era sempre stato restio a parlare dei propri sentimenti, anche con la madre. Tuttavia aveva trascorso con lui una settimana e magari poteva aver notato qualcosa. Non sapevo che pensare ma ero comunque decisa ad andare fino in fondo questa volta.
- Ci andrai vero?
- Sì, ci andrò!
- Vuoi che ti accompagni?
- No, preferisco andare da sola.
*****
Arrivata a teatro trovai una folla in attesa di entrare. Sul cartellone campeggiava una scritta illuminata: Cymbeline. Il nome di Terence Graham non appariva, evidentemente la sua partecipazione era un fuori programma. Era tantissimo tempo che non lo vedevo recitare, lo ricordavo giovanissimo nella sua prima interpretazione, il re di Francia in Re Lear, accanto a Susanna. Romeo e Giulietta invece lo avevo visto solo iniziare! Presi un profondo respiro ed entrai.
Raggiunsi il mio palco e mi misi seduta cercando di calmarmi. Da quella posizione potevo ammirare sotto di me la platea che pian piano si riempiva. Nelle prime file presero posto molte personalità della politica, imprenditori e altri personaggi del mondo dello spettacolo. La prima fila era ormai quasi al completo, rimanevano vuoti solo tre posti, non mi ci volle molto per capire a chi fossero destinati. Poco dopo un lungo applauso seguito da una serie di ovazioni accolse l’ingresso dal fondo del teatro dell’attrice Eleanor Baker al braccio del figlio, dietro di loro il compositore Jean Paul Moreau.
Terence, splendido in smoking nero, sorrideva avanzando lungo il corridoio centrale e ogni tanto alzava una mano salutando qualcuno. Dalle poltroncine più vicine alcuni presenti si sporgevano per chiedergli l’autografo, ma lui andava avanti rimandando a dopo lo spettacolo. Appena presero posto, le luci si spensero ed ebbe inizio lo rappresentazione.
L’intreccio della storia di Cymbeline ruotava intorno alla scommessa di un marito vanesio sulla fedeltà di sua moglie, mischiando momenti di intensa drammaticità ad altri più sereni e permettendo di sperimentare le emozioni della tragedia insieme al lieto fine della commedia.
Nonostante la storia appassionante, durante le quasi due ore di spettacolo non potei fare a meno di distrarmi. La platea era completamente al buio, ma la prima fila veniva ogni tanto illuminata dal riverbero delle luci dirette al palcoscenico, cosicché a tratti anche il viso di Terence prendeva vita sotto ai miei occhi. Potevo vederlo sorridere, applaudire e scambiare qualche parola con la madre alla sua destra e Jean Paul alla sua sinistra.
Eravamo giunti ormai quasi alla fine, quando mi colpì una frase pronunciata da Cymbeline:
“Perdono è una parola intesa, oggi, per tutti quanti”[1]
Un applauso che sembrava non finire mai riempì il teatro, omaggiando gli attori per la loro esaltante interpretazione. Anch’io mi alzai in piedi e mi unii a quelle acclamazioni ma forse più per stemperare la tensione che mi attanagliava la gola al solo pensiero di parlare con Terence.
Dopo che anche l’ultimo personaggio ebbe abbandonato il palco, un solo fascio di luce illuminò al centro Robert Hathaway.
- Signore, signori, spero vivamente che abbiate apprezzato lo spettacolo cui avete appena assistito e vi ringrazio della vostra benevolenza e del vostro affetto. Affetto che sicuramente non mancherà anche nell’accogliere sul palco colui che, negli ultimi anni, ha dato senza alcun dubbio maggior lustro alla nostra compagnia teatrale. Nonostante manchi da New York ormai da un bel po’ di tempo sono certo che il ricordo che qui ha lasciato non sia affatto affievolito e l’omaggio che gli avete tributato al suo ingresso in platea ne dà conferma evidente. A tutti voi infatti non è sfuggita la presenza in sala di colui che ancora ragazzino si presentò alla Stratford per diventare un attore. Io posso prendermi, se mi permettete, il merito di avergli dato la possibilità di calcare un palcoscenico, ma lui … un attore lo era già. Ma non voglio dilungarmi oltre visto che avrete già capito di chi sto parlando. Invito gentilmente a salire sul palco Terence Graham.
Un lungo applauso accompagnò Terence sul palco il quale ringraziò il pubblico per l’accoglienza e Robert per le belle parole spese per lui. Dopodiché fece il suo ingresso sulla scena un pianoforte e l’attore presentò il compositore Jean Paul Moreau: con il suo accompagnamento musicale avrebbe interpretato il breve monologo di Puck, il capriccioso folletto di Sogno di una notte di mezza estate. Le prime note della melodia di Jean ci trasportarono in una sorta di meraviglioso limbo, fu poi la voce di Terence ad ipnotizzare tutti guidandoci fino in paradiso.
Se l’ombre nostre v’han dato offesa, voi fate conto v’abbiano colto queste visioni così a sorpresa mentr’eravate in preda al sonno; in lieve sonno sopiti, ed era ogni visione vaga chimera. Non ci dovete rimproverare se vana e sciocca sembrò la storia; ne andrà dissolta ogni memoria, come di nebbia se il sole appare; se ci accordate vostra clemenza, gentile pubblico, faremo ammenda. |
E com’è vero ch’io son folletto onesto e semplice, sincero e schietto, se pure ho colpe, non mai ho avuta lingua di serpe falsa o forcuta; pago l’ammenda senza ritardo, o mi direte che son bugiardo. Ora vi auguro sogni felici, se sia ben vero che siamo amici, e ad un applauso tutti vi esorto, poiché ho promesso che ad ogni torto a voi usato per insipienza, gentile pubblico, faremo ammenda.[2] |
Appena terminato con un inchino, Graham uscì di scena, mentre le note di Jean Paul continuarono per alcuni minuti a coccolare il pubblico come una dolce buonanotte. Quando Terence riapparve, accompagnò l’amico al centro del palco e lo ringraziò per la splendida musica che aveva creato per l’occasione. Jean si disse semplicemente onorato di essere salito sul palco con lui! Dopodiché Terence prese di nuovo la parola:
- Vorrei ringraziare anche un’altra persona cui devo molto perché, se è vero che l’artista che sono oggi lo devo principalmente a me stesso, se non fosse stato per lei, per la passione che mi ha trasmesso, io probabilmente non avrei neanche cominciato. Mi permetto dunque di chiedervi un grande applauso per Eleanor Baker, mia madre!
Vidi Eleanor alzarsi lentamente in platea, stupita e commossa, mentre il figlio scendeva dal palco con un enorme mazzo di rose rosse. Immaginavo quanto fosse costato a Terence quel gesto, lui sempre così riservato, e anch’io mi commossi al ricordo di quel giorno in Scozia quando non voleva neanche parlare con la madre. Mi sentii un pochino orgogliosa di aver contribuito a quella riconciliazione.
Non appena le luci si riaccesero in sala, Terence e la madre furono letteralmente assaliti da una lunga serie di foto da firmare e autografi cui non poterono sottrarsi.
Mentre cercavo di capire in che modo avrei potuto parlare con lui, abbandonai il mio palco e uscii nel foyer dove molta gente si stava intrattenendo chiacchierando e commentando lo spettacolo. Incontrai Jean e mi complimentai con lui dicendogli che non sapevo fosse così bravo.
- La tua musica è pura poesia.
- Ti ringrazio Candy, anche tu sei pura poesia, sei bellissima stasera!
Confesso che il complimento di Jean mi fece davvero piacere, ne avevo bisogno, soprattutto quando vidi venirmi incontro Miss Baker, da sola. Dovette accorgersi della mia espressione angosciata dal timore che il figlio se ne fosse già andato, infatti mi rassicurò subito sussurrandomi che Terence aveva avuto un attacco di nostalgia ed era andato nel suo vecchio camerino.
- È l’ultimo in fondo al corridoio, non puoi sbagliare! – continuò parlandomi all’orecchio.
Io la guardai titubante, temendo che lui avrebbe potuto anche non volermi vedere. Ma Eleanor non intendeva assecondare le mie paure.
- Se qualcuno ti fa problemi, dì che ti mando io! – esclamò, confidandomi il suo vero cognome che in pochi conoscevano, come una sorta di parola d’ordine.
Le gambe iniziarono a tremarmi quando mi affacciai dietro le quinte e una miriade di dubbi e timori iniziarono ad aumentare ad ogni passo che mi conduceva al suo camerino. Quei pochi metri percorsi mi sembrarono faticosi come scalare una montagna e quando mi fermai davanti alla porta dove ancora appariva la scritta “T. Graham” mi sentii soffocare.
- Per fortuna è andato tutto liscio e nessuno mi ha fermata, adesso però Candy devi calmarti altrimenti rischi di svenire davanti a lui! – pensai tra me.
Sospirai profondamente e, dopo essermi data anche un paio di schiaffetti sul viso (aumentando il mio rossore!), mi avvicinai e attraverso la porta socchiusa udii delle voci all’interno della stanza.
- C’è qualcuno con lui … - mormorai, ma la mia frase venne troncata dallo spalancarsi della porta. Uscì un uomo che non conoscevo, forse uno degli attori di quella sera.
- Buonasera signorina, cerca qualcuno?
- Beh sì … vorrei salutare Terence, Terence Graham … - risposi imbarazzata e temendo che mi avrebbe scambiata per una delle solite ammiratrici invadenti.
- Mi scusi se mi permetto, ma lei sarebbe?
Terence era di spalle, ma evidentemente aveva sentito quello scambio di battute e si voltò.
- Mike è tutto a posto, Miss Ardlay è un’amica – disse rivolgendosi all’uomo che se ne andò immediatamente.
- Entra. Ho saputo che mia madre è stata da te questa mattina, a quanto pare va tutto bene, giusto?
- Sì, ormai si è completamente ristabilita, anche se mi ha confessato che non le è dispiaciuto affatto fare un po’ di vacanza, soprattutto per aver potuto trascorrere del tempo con suo figlio.
Terence si era appoggiato al tavolo da trucco, con le gambe incrociate e le mani posate dietro la schiena, mentre io ero in piedi davanti la porta, stringendo la mia borsetta. Mi fissava in silenzio, cercai di non abbassare lo sguardo, ma la mia salivazione era ridotta al minimo!
- Hai assistito allo spettacolo vedo, ti è piaciuto?
- Molto! Tu e Jean Paul insieme poi, siete stati davvero incredibili … non mi aspettavo che componesse musica di questo tipo, è stato una rivelazione.
Sorrise leggermente, con un’espressione sarcastica sul viso.
- Bene, abbiamo esaurito gli argomenti mi pare, possiamo andare ora?
- Come? – chiesi stupita.
- Abbiamo parlato di Eleanor, di Jean Paul … che altro resta? Non sei venuta qui per questo?
- No, non solo per questo – risposi seria stavolta, guardandolo dritto negli occhi.
- No?! – esclamò ancora canzonandomi.
- Vorrei parlarti, se non ti dispiace.
- Parlarmi? E di cosa?
- Di … noi.
- Noi!!! – quasi gridò, scoppiando a ridere.
Il suo atteggiamento mi sorprese ma cercai di non lasciarmi intimorire ulteriormente. Aver parlato di Eleanor e dello spettacolo mi aveva un po’ tranquillizzato, così trovai il coraggio per proseguire quella conversazione.
- Lo so che sono passati molti anni dall’ultima volta che ci siamo visti … anche se io la ricordo molto bene e vorrei sapere se anche per te è la stessa cosa.
- Vuoi sapere cosa mi ricordo di quella notte? … Molta neve!
- Solo questo?
Terence non rispose. Alzò solo le spalle come se la cosa lo lasciasse indifferente.
Avvertii un brivido lungo la schiena.
- Anche di Londra o della Scozia … non ricordi niente?
- Ricordo molte cose: un collegio da dove scappavo spesso per ubriacarmi e fare a pugni, un padre ed una madre assenti, le vacanze da solo in Scozia!
- Non posso credere che tu sia così cambiato! – esclamai trattenendo il respiro.
- L’hai detto anche tu che è passato molto tempo … le persone cambiano ed io non sono più quel ragazzino che tu hai conosciuto.
- Questo lo so, siamo cresciuti entrambi, ma …
- Che cosa vuoi da me Candy? - mi chiese avvicinandosi e fissandomi con uno sguardo di ghiaccio. I suoi occhi sembravano non vedermi, mi attraversavano ed erano chissà dove.
Avrei voluto dirgli che non volevo che se ne andasse, perché averlo rivisto aveva fatto riaffiorare sentimenti che credevo scomparsi; mi sarebbe piaciuto passare del tempo con lui, provare a conoscerci di nuovo, provare a ritrovarci. Avrei voluto dirgli semplicemente che non lo avevo mai dimenticato, ora lì davanti a lui ne ero certa! Ma non riuscii a farlo, non riuscii a dire niente perché quello che lui fece sembrò davvero la fine di tutto.
- Forse ho capito cosa vuoi! – esclamò girandomi intorno e squadrandomi dalla testa ai piedi. Io lo seguivo con gli occhi, smarrita.
Ad un certo punto si fermò e mi venne vicino, molto vicino. Io indietreggiai, ritrovandomi con le spalle al muro. Lui mise le sue braccia attorno a me, poggiando le mani sulla parete e avvicinando il suo viso al mio. Potevo sentire il suo respiro caldo sulla mia pelle.
- Volendo, potrei anche farci un pensierino! – sussurrò con la sua voce sensuale.
- Che vuoi dire? – domandai con il respiro che si faceva sempre più corto.
- Andiamo Lentiggini … non fare la santarellina! È inutile perdere tanto tempo, anche tu vuoi da me quello che vogliono tutte, non è così?
Spalancai gli occhi, trattenendo il fiato e sentendo salire la rabbia. “Quello che vogliono tutte” … erano state queste le sue parole, non c’erano dubbi.
Ero come paralizzata, quando lui avvicinò la sua bocca alla mia, mi avrebbe di sicuro baciata se io non gli avessi mollato uno schiaffo! Terence rimase immobile, con il viso girato da una parte per il colpo ricevuto.
- Ti odio! – mormorai con le lacrime agli occhi. A quelle parole, lui abbassò le braccia di colpo, liberandomi. Uscii di corsa dal suo camerino, senza sapere nemmeno dove andare.
Perfetto Lentiggini … questo devi fare, odiarmi!
- Terence sei ancora qui?
- Sì Robert, adesso vado.
- Vedi di sbrigarti perché è stata appena diramata un’allerta meteo, pare che un uragano si stia pericolosamente avvicinando alla costa e tra poco chiuderanno tutte le strade, non sarà più possibile muoversi almeno fino a domattina.
- Cosa? Mia madre dov’è?
- È già andata a casa, non c’è più nessuno in teatro.
- Va bene, andiamo.
Spensi la luce, chiusi il camerino e mi avviai con Robert verso l’uscita. Arrivammo davanti al portiere che aveva il compito di accertarsi che tutti avessero abbandonato l’edificio. In quel momento mi venne in mente Candy, era fuggita dal mio camerino e non sapevo dove fosse andata. Descrivendola chiesi al portiere se l’avesse vista uscire.
- No mi dispiace signore, non l’ho vista.
- Ne è sicuro?
- Sì, questa è l’unico passaggio rimasto aperto, l’avrei notata se fosse passata di qui.
Robert mi chiese quale fosse il problema, gli spiegai che c’era una ragazza con me e che probabilmente si trovava ancora all’interno del teatro.
- Devo andare a cercarla!
- Ma Terence ti ho detto che dobbiamo andarcene al più presto, potrebbe essere pericoloso!
- Tu vai, non ti preoccupare, appena la trovo ce ne andiamo.
Il portiere mi disse che non poteva trattenersi oltre, così li convinsi entrambi ad andarsene e a consegnarmi le chiavi del portone.
Dopodiché tornai di corsa dietro le quinte per cercare Candy.
[1] W. Shakespeare, Cymbeline, atto V, scena V.
[2] W. Shakespeare, A midsummer night’s dream, atto V, scena I.
Capitolo cinque
Dopo aver scandagliato ogni camerino e ogni corridoio per interminabili minuti, iniziavo a pensare che Candy se ne fosse andata, che in qualche modo fosse uscita dal teatro senza essere vista. Ma non potevo esserne sicuro, soprattutto non potevo lasciarla lì da sola dopo quello che era successo tra noi. Iniziò ad assalirmi il timore di aver esagerato con lei … e se le fosse successo qualcosa? Dovevo trovarla, dovevo trovarla assolutamente.
Mi fermai un momento a riflettere: le piaceva salire sugli alberi quando voleva stare da sola, un posto in alto e dove nessuno potesse raggiungerla. Ma certo, come ho fatto a non pensarci … anch’io ci andavo spesso quando volevo suonare la mia armonica …
Salii di corsa su per le scale che portavano al tetto e una volta in cima la chiamai. Non riuscivo a vederla eppure doveva essere lì, ne ero sicuro.
- Candy lo so che sei qui, esci fuori ti prego, dobbiamo andarcene! – gridai.
Dopo qualche istante il vento agitò un ricciolo biondo dietro ad un muretto. Mi avvicinai lentamente e quando lei si voltò mi resi conto che aveva pianto, era arrabbiata, molto. Se ne stava seduta per terra, con le braccia strette attorno alle gambe piegate.
- Candy … usciamo ti prego, vieni con me.
- Non vengo da nessuna parte con te! – gridò.
Il cielo si stava rannuvolando e all’orizzonte si notavano scariche elettriche sempre più violente.
Cercai di mantenere la calma e mi piegai sulle ginocchia per poter essere all’altezza del suo viso. Poi con la voce più convincente che avevo tentai di spiegarle come stavano le cose, facendole capire il rischio che potevamo correre rimanendo lì a causa dell’allerta uragano che era da poco stata diffusa.
- Andiamo, il teatro è un labirinto per chi non lo conosce, ti aiuto ad uscire.
- Ti ho detto che io con te non ci vengo, va pure se vuoi, so cavarmela da sola!
- D’accordo!
Mi misi seduto accanto a lei e accesi una sigaretta.
- Che cosa stai facendo?
- Se non vuoi venire, resto qui anch’io.
- Accidenti … ma perché devi essere così testardo!
- Io testardo! Sarei io quello testardo?
Scattò in piedi ed io pure. Eravamo l’uno di fronte l’altra quando un rombo violento si propagò sopra le nostre teste facendoci sobbalzare entrambi. Guardammo in alto, il cielo era adesso di un color grigio piombo. Iniziarono a cadere le prime gocce, l’aria sembrava piena di elettricità, come se da un momento all’altro potesse implodere e risucchiare ogni cosa.
- Andiamo dentro, è pericoloso stare qui fuori.
Lei annuì.
Scendemmo le scale e una volta arrivati in fondo, un altro tuono molto forte fece tremare l’edificio e restammo completamente al buio.
- Maledizione … deve essere saltata la corrente! – esclamai – Nel mio camerino dovrebbero esserci delle candele, seguimi.
- Io non riesco a vedere niente!
Effettivamente il corridoio era immerso nell’oscurità, ma io sentivo che lei era vicino a me.
- Posso trovare il mio camerino anche al buio, dammi la mano.
Con la mia mano nella sua raggiungemmo il camerino. Appena entrati lui la lasciò per cercare le candele nei cassetti. Il suo calore rimase ancora per un po’ nel mio palmo provocando in me una dolce sensazione. Poi quando rividi quella stanza, grazie alla luce della candela, mi tornò la rabbia per come si era comportato poco prima. Volevo andarmene.
- Voglio uscire da qui – gli dissi, decisa.
Lui mi guardò con l’aria stupita.
- Va bene … vado a vedere se è possibile, se le strade sono ancora aperte. Aspettami, torno subito.
Uscì dal camerino e lo vidi scomparire nel buio.
Mi guardai intorno, mi sedetti su un piccolo divano e il mio sguardo si posò sulla parete dove gli avevo dato uno schiaffo. Ripensai a quello che mi aveva detto: non si ricordava niente di New York, né di Londra né della Scozia, possibile? E poi quella frase: “Lentiggini non fare la santarellina”. Un momento … come mi aveva chiamato? Lentiggini ... aveva detto proprio così, ne ero sicura!
- Ma allora … allora si ricorda, non ha dimenticato tutto! Sta mentendo? Perché?
- Mi dispiace Candy ma credo che uscire da qui al momento sia fuori discussione, non ho mai visto una tempesta di pioggia e vento come questa, sarà meglio aspettare un po’.
Pensai che si sarebbe arrabbiata e magari sarebbe partita in quarta per andare a controllare da sola, non fidandosi di quello che le avevo detto e invece.
- Va bene – mi rispose, stranamente senza opporsi.
In realtà ero quasi sicuro che saremmo rimasti bloccati in teatro almeno fino alla mattina dopo e la cosa non mi faceva stare per niente tranquillo. Cosa avremmo fatto tutte quelle ore lì, insieme … avremmo finito per discutere come avevamo fatto prima? Certo io mi ero comportato molto male con lei, ero stato proprio un bastardo diciamolo, ma era stata un po’ anche colpa sua. Perché mai era venuta a cercarmi? Non le era bastato vedermi baciare una ragazza, davanti ai suoi occhi? Perché si ostinava a voler ricordare quello che era stato e che io ero convinto non potesse più tornare?
Mi sedetti su una sedia, lontano da lei. Il silenzio tra noi stava diventando pesante.
- Hai fame? – le chiesi pur sapendo che non avevo niente da offrirle.
- No … però inizio a sentire freddo.
- Un abito da sera come quello che indossi non è adatto per gli uragani – commentai scherzando, mentre cercavo nell’armadio dei costumi qualcosa per poterla scaldare. Trovai un mantello di velluto pesante.
- Metti questo.
- Grazie, ma tu non hai … - mi chiese esitando.
- No, non ho freddo.
Si avvolse nel velluto, togliendo le scarpe e nascondendo le gambe e i piedi sotto la stoffa. Nessun’altra donna lo avrebbe trovandosi da sola con un uomo che non fosse almeno il suo fidanzato, eppure in lei era un gesto così naturale, privo di qualsiasi malizia. Inevitabilmente mi fece sorridere e lei se ne accorse.
- Sono così buffa?
- No … tutt’altro.
- Però stai ridendo di me o sbaglio?
- Non sto ridendo di te, ho sorriso perché … niente non importa …
Come potevo dirle che il suo essere così spontanea, la sua naturalezza che la rendeva tanto diversa da tutte le altre ragazze, mi aveva sempre fatto impazzire!
- Devo chiederti scusa.
- Come?
- Sono stato davvero un villano prima, non avrei mai dovuto.
- Sei stato molto più che villano!
- Ok … molto più che villano, puoi perdonarmi?
Rimase un po’ in silenzio, probabilmente colpita dalle mie parole che non si aspettava.
- Perdonato – mormorò, con un filo di voce. Poi mi chiese di Stratford.
Le raccontai dove abitavo, il tipo di lavoro che facevo, i successi che avevo avuto e molte altre cose di cui non parlavo mai con nessuno.
- Ti piace molto stare lì?
- Sì è un bel posto e il lavoro è entusiasmante, decisamente non mi annoio!
- Così domani riparti.
- Domani sera, ammesso che l’allerta meteo si sia esaurita.
Anche lei mi raccontò un po’ di sé, degli studi che faticosamente aveva portato a termine, di quando si era trasferita a New York, delle difficoltà di essere un medico donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Poi le chiesi di Albert, di quella che era la sua vera identità e le confessai che, quando aveva riacquistato la memoria, mi aveva cercato e per un po’ di tempo ci eravamo tenuti in contatto.
Candy mi guardò sorpresa, evidentemente non ne era a conoscenza.
- So quanto hai sofferto dopo …
Non mi resi bene conto di quello che avevo appena detto, ma non ci fu modo di parlarne perché in quel momento un forte boato fece tremare di nuovo tutto l’edifico. La candela si spense e restammo al buio. Candy gridò per lo spavento ed io istintivamente mi alzai e andai a sedermi accanto a lei.
Nonostante il buio, percepivo chiaramente la presenza di Terence vicino a me.
- Non aver paura, va tutto bene – mi disse, poi avvertii il calore della sua mano sulla mia.
Il vento sembrò placarsi e ci fu un improvviso silenzio, ma la sua mano era ancora lì, leggera, come se temesse di farmi male, e calda. Voltai la mia verso l’alto, palmo contro palmo fu come se le nostre mani si stessero baciando. Non seppi resistere al desiderio di stringerla, così intrecciai le mie dita con le sue, dopo un istante lui fece lo stesso, richiudendole in un pugno.
Il vento riprese con violenza la sua furia. Intanto i miei occhi si stavano abituando a quell’oscurità e senza voltarmi riuscivo ad intravedere il suo profilo che guardava fisso davanti a sé. Poi d’un tratto si girò verso di me e restò fermo. Feci lo stesso e vidi i suoi meravigliosi occhi scintillare nel buio.
- Terry … - sussurrai il suo nome come fosse una preghiera.
- Sono qui … - mi rispose.
Furono le ultime parole che pronunciammo quella notte.
Senza sapere come mi ritrovai tra le sue braccia. Gli circondai la vita con le mie, poggiando la testa sulla sua spalla. Lo sentii deglutire e sospirare profondamente prima di aumentare la sua stretta sulla mia schiena. Mi avvicinai di più a lui per assecondare il suo abbraccio. Attraverso la mia guancia a contatto con il suo collo potevo ascoltare il battito sempre più violento del suo cuore e come per incanto il mio iniziò a seguirlo. Il rumore simile a quello di cavalli al galoppo mi stordiva. Stavamo correndo insieme verso qualcosa che mi faceva paura ma allo stesso tempo ero sicura di voler percorrere fino in fondo quella strada. E lui? Che cosa stava pensando? Solo pochi minuti prima mi aveva fatto capire chiaramente che dovevo stargli lontana, ma ora i suoi gesti erano così distanti dalle parole che per un attimo mi avevano portato ad odiarlo! Perché continuava a stringermi? Perché adesso non mi respingeva?
Nella mia mente seguitavo a ripetermi “non posso, non posso, non posso”, ma temevo il significato di quelle parole. Che cosa volevano dire?
La tenevo stretta a me e il desiderio che ogni centimetro della nostra pelle potesse combaciare iniziò ad essere così forte da darmi le vertigini. Il suo respiro sul mio collo come una carezza mi faceva tremare.
Avvertii una sensazione di calore sul petto e capii che stava piangendo. Attraverso la camicia era come se le sue lacrime marchiassero a fuoco la mia pelle.
In quel momento compresi chiaramente di essere del tutto in suo potere, ma non ero sicuro che lei se ne rendesse conto.
Lo stesso uragano che infuriava sulla città di New York aveva rapito anche me ed io non avevo la forza di oppormi a quello che sarebbe inevitabilmente accaduto di lì a poco.
Per un attimo tentai di recuperare un briciolo di lucidità. Non avrei resistito a lungo, dovevo assolutamente trovare la forza di staccarla da me, di lasciarla andare e lo feci. Allentai la presa delle mie braccia sulla sua schiena, ma lei comprese e rispose al mio gesto afferrando la mia giacca e dopo incrociando le mani dietro la mia testa. Poi alzò gli occhi e mi guardò, restando immobile davanti a me, quasi sfidandomi. D’improvviso, come se le avessi detto qualcosa, sorrise ed io non ebbi più scampo.
Quel “non posso” trovò in pochi istanti il suo significato: non posso non amarti!
Il verde dei suoi occhi scintillò nel buio ed io mi persi definitivamente, gettandomi in quell’abisso di smeraldo. I nostri corpi in un istante furono di nuovo vicini, troppo vicini per non avvertire il folle desiderio che diventassero uno solo.
Mi gettai tra le sue braccia senza il minimo pudore e mi strinsi a lui più forte che potevo, sprofondando il viso nel suo petto. Quando un attimo dopo anche le sue braccia si chiusero intorno a me, mi sembrò che tutto il dolore degli anni trascorsi senza di lui venisse spazzato via da quel semplice gesto.
Piansi, come liberata da un peso enorme e ormai insostenibile.
Poi d’un tratto sentii la sua presa allentarsi … no, non volevo lasciarlo e mi aggrappai con le mani alla sua giacca, sulla schiena, incrociandole poi sulla sua nuca. Alzai solo il viso per guardarlo e cercare di capire, ma la sua espressione mi apparve indecifrabile, un misto di paura e abbandono, tenerezza e incredulità.
Tra le lacrime gli sorrisi sperando di calmarlo, senza considerare che anch’io ero completamente rapita da un vortice di emozioni e sentimenti contrastanti. Un’unica certezza mi fece andare avanti: lo amavo, lo amavo disperatamente, da sempre.
Come se fossimo anche noi stati rapiti dalla furia dell’uragano, ogni gesto compiuto era come guidato da una forza superiore a cui non potevamo opporci.
La sentii tremare, non ne sapevo il motivo. Pensai che avesse paura di tutto quello che stava accadendo là fuori, che fosse preoccupata. Stringendola di nuovo forte a me le sfiorai la tempia con un bacio leggero cercando di rassicurarla. La sentii sospirare e abbandonarsi, cosicché i baci divennero presto due, tre, quattro … sempre di più e sempre più vicini alle sue labbra.
Non avrei osato farlo, sapevo cosa avrebbe significato baciarla, ma Candy la pensava diversamente. Quando avvertii il tocco lieve delle sue labbra sulle mie non fui più in grado di pensare a niente. Risposi al suo bacio all’inizio con cautela, ma il nostro era un reciproco cercarsi che non avrebbe trovato fine se non l’uno nella bocca dell’altro. Il nostro bacio divenne sempre più esigente e quando la mia lingua abbracciò la sua capii quanto difficile sarebbe stato tornare indietro!
Dopo interminabili minuti durante i quali le nostre bocche non avevano fatto altro che inseguirsi, scappare e riprendersi, tentando invano di resistere a quel desiderio incontrollabile, anche le nostre mani ci tradirono cercando disperatamente di scoprire quali sensazioni provocasse sfiorare la nostra pelle. Così le tolsi il mantello dalle spalle che il suo incantevole abito da sera lasciava per metà scoperte, ma non mi accontentai di sfiorarle con le mani, le mie labbra fecero lo stesso, proseguendo poi lungo il collo che i suoi capelli, scivolando indietro, avevano gentilmente deciso di offrirmi.
Sapevo cosa significasse desiderare un uomo, ma ciò che stavo provando con Terence era qualcosa di assolutamente nuovo per me. Ero completamente travolta da mille emozioni che ogni suo più piccolo gesto provocava solo sfiorando la mia pelle. Il suo profumo, il suo sapore, le sue mani, i suoi occhi, tutto di lui mi faceva perdere la ragione e non mi rendevo conto di volere sempre di più! Scoprire ogni segreto angolo del suo corpo era ciò a cui ambivano le mie mani che, divenute ormai impazienti, iniziarono una lunga lotta con i bottoni della sua camicia. Non era facile per loro conciliare ardore e tremore, ma non erano intenzionate a cedere. Terence andò il loro aiuto sfilandosi la giacca e slacciando i polsini, mentre le guardava incredulo proseguire il loro percorso fino al bordo dei suoi pantaloni. L’ultimo atto fu decisamente il più semplice perché fu sufficiente un istante per far scivolare la camicia dietro alle sue spalle. Avvertii un’onda di calore avvolgermi il viso quando, spudorate come non le avevo mai viste, le mie mani si poggiarono sul suo petto nudo, carezzandone con le dita ogni linea definita dai muscoli tesi sotto la pelle calda.
Ci guardammo per un istante cercando risposte a domande che non conoscevamo. Una flebile luce illuminava i suoi occhi, mi prese il viso tra le mani e mi baciò. Poi si voltò offrendomi la schiena. Le scostai i capelli e scoprii una lunga fila di piccoli bottoni che per un attimo mi illusi fossero miei alleati. Sganciarli uno per uno mi avrebbe sicuramente dato il tempo di riflettere e di riprendere il controllo di quello che stavo facendo. Scoprii invece immediatamente quanto Eros si diverta ad illudere gli amanti! Ogni bottone che liberavo mi rendeva al contrario sempre più schiavo e quando la visione della sua schiena nuda si presentò ai miei occhi, ormai le mie catene erano definitivamente sigillate. Sfiorarla e baciarla era un sogno che accarezzavo fin da ragazzino, da quando la sfrontatezza dell’adolescenza mi aveva autorizzato a spiarla mentre si cambiava nel bosco, trasformandosi da Romeo nella giovane Giulietta. Come si era arrabbiata quando mi aveva visto lì sull’albero, ma poi quel pomeriggio si era concluso con il nostro primo bacio, l’unico fino a pochi minuti fa.
Mi alzai in piedi e lei mi seguì. In pochi istanti il suo vestito scivolò via e Candy allungò una mano per prendere il mantello rimasto sul divanetto. Pensai che volesse coprirsi e che si vergognasse di me, invece avvolse entrambi con il velluto e così ci ritrovammo abbracciati stretti l’uno all’altra, come protetti da quel manto. Sorridemmo entrambi perdendoci nei nostri sguardi, poi cademmo giù sospinti da quell’amore troppo grande.
Restammo immobili, come paralizzati per non so quanto tempo, poi avvertii la sua mano percorrere i lineamenti del mio viso, le sopracciglia, il naso, le labbra, il mento, liberarmi la fronte dai capelli, come un cieco che cerca di riconoscere chi ha davanti toccandolo. Ma la mia bocca era ormai incapace di starle lontano e riprese a baciarla ovunque le fosse concesso arrivare. Quando si fermò sul suo seno che avevo liberato dalla sottoveste, pensai che mi avrebbe interrotto, invece sentii le sue mani percorrere la mia schiena fino a premere dolcemente la mia testa sul suo petto.
Mi voleva ed io volevo lei!
Mi voleva ed io volevo lui!
Non eravamo vittime di un incantesimo, non era la paura dell’uragano a farci stare uniti, non era il desiderio di una notte. Era piuttosto lo scoprire che il nostro amore non era svanito nel nulla, aveva resistito al tempo e al dolore, alla lontananza e alla disperazione. E se in quel momento eravamo lì era perché le scelte che avevamo fatto, nonostante tutto, avevano avuto sempre un solo scopo e cioè quello di ritrovarci e poter vivere finalmente quell’amore che ci era stato strappato via. In ogni suo gesto, in ogni suo sguardo, in ogni sua carezza, in ogni suo bacio, Terence mi stava dichiarando amore eterno, ne ero sicura.
Le nostre gambe si incrociarono mentre le sue carezze si facevano sempre più audaci e il mio corpo rispondeva non avendo ormai alcuna via di scampo. Ma non era certo fuggire ciò che desideravo in quel momento e quando lo sentii sopra di me credetti che stesse per scoppiarmi il cuore, tale era la forza di ciò che provavo.
Mi accarezzò il viso, guardandomi come se avesse bisogno del mio assenso, gli risposi regalandogli il più dolce dei sorrisi, lui fece lo stesso poco prima che diventassimo una cosa sola.
Quando mi svegliai, per qualche minuto credetti di aver sognato. La stanza era immersa nel silenzio e poca luce rendeva visibile ciò che avevo intorno. Fu il calore del suo corpo vicino al mio a svegliarmi del tutto e mi sentii crollare il mondo addosso. Che cosa avevo fatto!
Lei dormiva, con la testa appoggiata sul mio braccio e il suo stretto attorno ai miei fianchi. I capelli biondi che si erano liberati dai nastri le carezzavano le spalle, mentre il mantello copriva il resto. La sentivo respirare delicatamente sul mio collo e per un attimo ancora rimasi schiavo di quella visione e delle dolci sensazioni che mi suscitava. Alla fine la ragione prese il sopravvento e mi alzai, piano, cercando di non svegliarla. Mentre finivo di abbottonare la camicia, sentii le sue mani accarezzarmi la schiena.
- Ti ho svegliata?
- Avresti dovuto farlo prima di alzarti – mi disse con aria di rimprovero.
Mi voltai e la prima cosa che fece fu baciarmi. Rimasi sorpreso, lei se ne accorse e sembrò non capire.
- Vado a vestirmi – mi disse scura in volto.
Quando ebbe finito e uscì dal bagno le dissi che fuori sembrava tutto a posto ora. L’uragano era passato e probabilmente aveva fatto meno danni di quanto ci si aspettasse.
- Non credo – mormorò.
Non sapevo cosa dirle, o meglio lo sapevo ma non avevo il coraggio di farlo.
- Candy io …
- Non dire niente!
- Invece si, devo parlare e tu devi ascoltarmi, ti prego.
Mi fissò in silenzio come se volesse leggermi nel cuore, ma non avrebbe mai immaginato di trovarvi scritto ciò che le dissi.
- Non sarebbe dovuto accadere, è stato uno sbaglio.
- Che cosa stai dicendo?
- Mi sono lasciato andare, è colpa mia …
- Non è vero, eravamo in due e lo abbiamo voluto entrambi!
Abbassai il viso non riuscendo a sostenere il suo sguardo determinato e innamorato.
- Guardami Terry ti prego o io rischio di impazzire!
Tornai a guardarla senza dirle niente, mentre avevo l’impressione di tenere in mano la spada che in quel momento le trafiggeva l’anima.
Un rumore sordo e ripetuto attirò la nostra attenzione, proveniva dall’esterno, qualcuno stava bussando insistentemente e con forza all’ingresso degli artisti.
- Sono venuti a prenderti, è meglio se vado ad aprire - le dissi.
Cercai di sistemare i capelli soprattutto per evitare domande cui non ero in grado di rispondere, anche se i miei occhi parlavano da soli, poi raggiunsi anch’io l’uscita dove Archie ed Annie mi aspettavano. Erano stati molto in pena per me. Dissi loro che ero stanca e che preferivo rimandare a più tardi le spiegazioni. Annie evidentemente capì subito che era successo qualcosa, così salutarono Terence velocemente e salimmo in auto. Io non lo guardai, ma mentre Archie metteva in moto, mi voltai per un attimo e lo vidi in piedi sugli scalini del teatro. Appoggiai il viso al finestrino per prolungare il più a lungo possibile quella visone finché scomparve del tutto.
Tornai in camerino per prendere la giacca che nella fretta di uscire avevo dimenticato. Notai in un angolo del pavimento una macchia di colore. Era un piccolo scrigno, sembrava un carillon, ma quando lo aprii mi resi conto che era rotto, probabilmente un difetto nell’ingranaggio impediva alla melodia di partire. Sul fondo c’erano incise delle lettere: C. W. Ardlay.
*****
- Candy stai bene? – mi chiese Annie appena restammo da sole nella mia stanza.
Io la guardai senza dire niente. Ero sul punto di esplodere, invece non riuscivo nemmeno a piangere.
Annie continuava a chiedermi di raccontarle cosa era successo perché era evidente che qualcosa mi turbava, ma le dissi che ero davvero molto stanca e che preferivo cambiarmi e mettermi a letto. Così mi lasciò ed io iniziai a spogliarmi e fu in quel momento che mi accorsi di aver perso il carillon di Stear. Lo avevo portato a teatro con me quella sera.
- Adesso come faccio? Deve essere successo quando ho tolto il vestito! – esclamai a voce alta convinta che nessuno potesse sentirmi.
Provare a dormire fu una vera tortura. Appena chiusi gli occhi tutto quello che era accaduto tra noi prese possesso della mia mente e dei miei sensi. Il suo viso così dolce e i suoi baci appassionati, le sue mani su di me … con un linguaggio fatto non di parole ma di gesti i nostri corpi si erano dichiarati tutto l’amore che non avevamo mai potuto esprimere. Volevo crederci: Terence mi amava come io amavo lui! Non mi importava di quello che aveva detto dopo perché non aveva senso. Non ne conoscevo il motivo, ma di sicuro doveva esserci una spiegazione al suo comportamento ed ero convinta che sarei riuscita a scoprirla. Speravo almeno che per il cattivo tempo avesse rimandato la partenza, in caso contrario si sarebbe imbarcato per l’Inghilterra quella sera stessa. Sapevo che stava dalla madre, avrei potuto provare a contattarla, ero certa che mi avrebbe aiutata a sapere almeno l’orario in cui si sarebbe recato al porto. Con questa idea che suscitò un po’ di quiete nel mio cuore, vinta dalla stanchezza, mi addormentai.
L’allerta meteo sembrava essersi esaurita, il mio piroscafo sarebbe partito in orario, alle 6 di quel sabato pomeriggio. Avevo poche ore per preparare i bagagli, ma nello stato d’animo in cui mi trovavo non riuscivo a combinare niente. Come avevo potuto essere così stupido! Maledicevo me stesso, persino il fatto di essere nato, considerandomi incapace di amare davvero. Dovevo partire, partire al più presto ed evitare così di complicare ulteriormente la situazione.
Mentre continuavo a girare a vuoto nella mia stanza, gettando alla rinfusa alcuni vestiti in una valigia, mi apparve di nuovo davanti agli occhi quel minuscolo carillon. L’avevo poggiato sul mio comodino e da lì sembrava chiamarmi. Lo presi e lo esaminai per cercare di capire come mai non funzionasse: esternamente non appariva danneggiato. Tolsi il fondo con un piccolo cacciavite e ne estrassi l’ingranaggio. Non ero decisamente un esperto in materia. Mi venne in mente Stear, lui sì che avrebbe saputo dove mettere le mani! Ero venuto a conoscenza della sua morte e ne ero rimasto profondamente colpito. Lo ricordavo con affetto e stima, saremmo potuti essere amici se la vita non fosse stata così ingiusta con lui. Ad un certo punto, osservando meglio l’interno del carillon, notai che c’era della polvere e soffiai per eliminarla, poi lo richiusi, convinto di non riuscire a ripararlo. Lo misi al centro della mia mano, lo osservai per qualche istante e poi sollevai di nuovo il piccolo coperchio bombato con una minuscola rosa bianca sulla sommità … incredibilmente la melodia prese vita.
- Funziona! – esclamai stupito.
Provai più volte ad aprire e chiudere, ogni volta la musica iniziava senza esitazioni e senza saltare neanche una nota. Era una bella musica, dolce e allegra nello stesso tempo, fatta apposta per qualcuno che è triste e ha bisogno di un briciolo di felicità. Andai al pianoforte e provai a riprodurla, suonarla mi faceva sentire meglio.
- E così sei comunque deciso a partire oggi?
- Mamma … sì, la bufera sembra passata e non vedo perché dovrei rimandare – le risposi smettendo di suonare.
- Pensavo tu fossi stanco dopo questa notte.
- In viaggio avrò tutto il tempo per riposare.
Si avvicinò e mise la sua mano delicata sulla mia spalla, guardandomi teneramente.
- Non hai proprio niente che ti lega a New York?
- No, niente. A parte te, ma non ci sei mai!
Sorrise amaramente.
- Vado a finire di preparare i bagagli – le dissi alzandomi e dandole un bacio sulla guancia.
- Perché ho come l’impressione che tu stia fuggendo?
La guardai serio senza dire niente, mentre il telefono iniziò a squillare. Eleanor rispose e mi fece cenno con una mano di aspettare un attimo.
- Candy che piacere sentirti! Io sto bene ti ringrazio e tu?
…
- Vorresti parlare con Terry? Un momento solo …
Le feci capire che doveva dirle assolutamente che io non c’ero! Mia madre mi guardò stupita, poi con aria di rimprovero, ma fece quello che le avevo chiesto. Terminata la chiamata mi disse che Candy le aveva lasciato il suo numero perché io la potessi richiamare.
- Ha detto che è molto importante! Terry che cosa stai combinando, si può sapere?
- Niente! – risposi prima di tornare nella mia stanza.
Poche ore dopo mi imbarcavo al porto di New York per tornare definitivamente in Inghilterra.
Dopo aver parlato con la madre di Terence e averle lasciato il mio numero di telefono, avevo veramente continuato a credere che lui mi avrebbe chiamato, invece niente. L’ora della sua partenza era ormai prossima e la speranza di poterlo almeno sentire mi stava inesorabilmente abbandonando. Avevo anche pensato di correre al porto per fermarlo, come avevo già fatto tanti anni prima, ma non ero più una ragazzina e poi … sarebbe servito a qualcosa? Gli avevo chiesto di richiamarmi ma lui non lo aveva fatto, del resto dopo quello che mi aveva detto in teatro che cosa potevo aspettarmi! Era stato un errore, punto. Queste erano state le sue ultime parole.
- Miss Ardlay, scusi se la disturbo, è stato appena consegnato questo pacchetto per lei.
- Grazie David, chi me lo manda?
- Non c’è il mittente, è stato consegnato a mano da un ragazzino che mi ha pregato di darlo direttamente a lei, forse è il caso di buttarlo.
- No, me lo dia pure, ci penserò io.
Tolsi con cautela la carta che lo avvolgeva e ne uscì fuori …
- Il mio carillon! Com’è possibile …
Lo aprii e la sua dolce melodia tornò ad accarezzare il mio cuore.
- Qualcuno lo ha trovato e lo ha riparato!
All’interno c’era un piccolo biglietto ripiegato:
Perdonami, per tutto, se puoi
Terry
Mi sentii gelare il sangue nelle vene.
- Perdonarti? Per tutto? Che cosa devo perdonarti? Che cosa vuol dire “per tutto”? Oh Terry, io non devo perdonarti niente … perché mi chiedi questo?
Perché sei partito, perché te ne sei andato così? Ho una marea di perché e nessuna risposta!
Come faccio adesso?
Avrei voglia di urlare e di picchiarti! Avresti dovuto chiedermelo di persona e non con un biglietto … ti avrei perdonato qualunque cosa pur di averti qui ora!
Sei stato tu ad aggiustare il carillon di Stear, non posso crederci … era da quella maledetta notte che non suonava più.
Quanto vorrei abbracciarti in questo momento neanche te lo immagini …
In lacrime continuavo a farmi mille domande a cui solo lui avrebbe potuto rispondere e non sapevo cosa fare. Se gli avessi scritto? Non conoscevo nemmeno il suo indirizzo a Stratford, non potevo chiedere di nuovo ad Eleanor, forse … Jean Paul … oppure dovevo solamente accettare la realtà: Terry se ne era andato e non ne voleva più sapere di me, nonostante quello che era successo tra noi.
Capitolo sei
Stratford upon Avon
Pensavo che sarebbe stato difficile, ma non così! Il viaggio di ritorno in Inghilterra sembrava non finire mai e più di una volta fui sul punto di chiedere al comandante di tornare indietro, ma indietro non potevo tornare. Ero convinto che il mio destino fosse ormai segnato, rappresentato da una vita senza amore.
Ero incapace di amare, ogni volta che ci avevo provato avevo miseramente fallito: non ero riuscito ad amare Susanna e, se questo poteva anche essere comprensibile, ciò che mi risultava del tutto evidente era che non ero stato capace nemmeno di amare l’unica donna per cui avessi mai provato tale sentimento. Potevo dare la colpa al destino, all’inesperienza, alla mancanza di una persona che potesse aiutarmi, ma dal mio punto di vista erano solo scuse. Quella sera avevo sbagliato tutto: non avevo avuto il coraggio di parlare a Candy dell’incidente di Susanna, così lei lo aveva saputo nel peggiore dei modi e chissà cosa aveva pensato di me, magari che la mia intenzione era di tenerglielo nascosto. Quando arrivai in ospedale e presi in braccio Susanna, davanti alla faccia atterrita di Candy … non potrò mai dimenticare i suoi occhi colmi di delusione.
Ho creduto che fosse giusto proteggere Susanna, la vedevo così debole ed indifesa in quel momento, ma mi sbagliavo, anche se questo l’avrei capito soltanto molto tempo dopo. Il gesto che fece nei miei confronti, gettandosi su di me per evitare che un riflettore mi piombasse addosso, era stato senza dubbio molto generoso ed io ne ero rimasto profondamente colpito, anche perché lei ne aveva subito tutte le conseguenze. Ma nei mesi successivi compresi che quell’iniziale gesto di altruismo si era ben presto trasformato in una sorta di ricatto morale con cui Susanna pretendeva di tenermi legato a lei per sempre. Nonostante questo non riuscivo a liberarmi da quella schiavitù, perché più il tempo passava e più sentivo che ormai sarebbe stato tutto inutile.
Quella notte avevo scelto di restare accanto a Susanna e non potevo permettere che Candy fosse coinvolta in quella situazione. Pensai che allontanandola sarebbe stata felice ed è proprio questo che le chiesi mentre la stringevo a me, su quelle scale, altrimenti non l’avrei perdonata. Anche lei mi chiese la stessa cosa, di essere felice.
In quel modo però le avevo fatto solo del male. Avrei dovuto scegliere lei, scegliere di proteggere lei e il nostro amore. Avrei dovuto mettere subito le cose in chiaro con Susanna. Perché non lo feci? Non lo so. Per vigliaccheria forse o per quell’assurdo senso del dovere ereditato dai Granchester. Anche questo pensiero mi bruciava dentro, l’essermi comportato come mio padre, rinunciando all’amore della mia vita per adempiere a quelli che la società considerava i miei doveri di riconoscenza. Non riuscivo a perdonarmi.
Quando Susanna era venuta a mancare, per molti mesi mi ero torturato nell’idea di contattare Candy. Dopo la nostra separazione, quando Albert aveva riacquistato la memoria e si era ufficialmente presentato come capostipite della famiglia Ardlay, mi aveva scritto. Una lettera da vero amico in cui mi diceva di comprendere la scelta che avevo fatto e mi incoraggiava a non mollare, dichiarandosi fiducioso del fatto che sarei diventato un grande attore. Gli risposi ringraziandolo per la sua vicinanza e poi continuammo a scriverci per un po’, ma non parlavamo mai di Candy. L’ultima sua lettera risale proprio a pochi giorni dopo la morte di Susanna. La sua amicizia anche in quell’occasione fu molto importante per me e alla fine trovai il coraggio di chiedergli “lei come sta?”. Mi rispose che Candy stava bene, studiava medicina all’Università di Chicago, era serena. Queste parole mi indussero a pensare che fosse troppo tardi e che se lei era andata avanti, superando il male che le avevo fatto, era giusto che ognuno prendesse la propria strada. Quella fu l’ultima lettera da parte di Albert perché pochi mesi dopo mi trasferii in Inghilterra senza comunicargli il mio nuovo indirizzo. Anch’io non gli scrissi più. Ero intenzionato a cancellare ogni cosa che potesse ancora tenermi legato a lei.
Quando arrivò la proposta di lavoro da Stratford mi sembrò l’occasione migliore che potesse capitarmi per chiudere con il passato. Credevo davvero che fosse possibile. Il pensiero che Candy fosse felice mi avrebbe dato la forza per andare avanti. Come mi ingannavo!
Durante i primi anni in Inghilterra tentai sul serio di cambiare vita. Un nuovo lavoro in teatro che mi assorbiva molto, una nuova casa, persone con cui pian piano riuscii ad instaurare un buon rapporto di amicizia, come con John Duncan, mi consentirono di mettere da parte per un po’ i miei dolori. Ma questa illusione svanì presto.
Tornare a New York e rivederla aveva fatto crollare ogni misera certezza che mi ero costruito faticosamente in quei tre anni. D’improvviso sembrava non essere passato neanche un giorno dall’ultima volta che ci eravamo visti e questo pareva valere anche per lei. Eppure ci avevo provato di nuovo a starle lontano e a farle capire, fino al punto di farmi odiare, che non poteva più esserci niente tra noi. Ma lei, ostinata come era sempre stata del resto, non ci aveva creduto. Non aveva creduto alla mia messinscena, non sono un grande attore evidentemente o piuttosto lei è stata capace di leggermi dentro, andando oltre la mia maschera. Così è venuta in teatro per parlarmi. Io, disperato, ho usato tutte le mie armi peggiori per poterla allontanare da me: mi sono preso gioco di lei, fingendo di aver dimenticato ogni cosa del nostro passato, le ho addirittura fatto credere che magari avrei potuto concederle una notte di passione, se era questo che voleva. Lo schiaffo che mi ha dato mi ha fatto pensare di aver ottenuto ciò che volevo, che mi odiasse e si dimenticasse di me, ma ancora una volta mi sono sbagliato.
La notte che abbiamo trascorso insieme è come se l’avessi tatuata sull’anima. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni carezza, ogni bacio, mi porto dietro tutto e non potrò mai cancellarlo. Come posso fare adesso?
Mi ripeto continuamente che non avrei dovuto lasciarmi andare in quel modo, non perché non lo volessi, ma perché quello che è successo, nel modo in cui è successo, mi ha fatto di nuovo accarezzare la speranza di averla con me. È per questo che ho osato chiederle di perdonarmi, ma non avrei dovuto farlo. Non ho il diritto di farmi odiare e poi di chiedere di essere perdonato. Eppure l’ho fatto perché in realtà non sopporto che lei mi odi.
*****
Una volta rientrato a Stratford, pensai che riprendere a lavorare duramente mi avrebbe concesso un po’ di tregua, ma non fu così.
In teatro ero intrattabile. Al minimo errore in una battuta, un’espressione o un’entrata in scena, scaricavo sul malcapitato tutta la rabbia che in realtà provavo verso me se stesso. Erano giorni di prove intense per il nuovo spettacolo che sarebbe uscito tra poco meno di un mese: Sogno di una notte di mezza estate, una commedia che inesorabilmente stavo trasformando in un dramma. Gli attori per un po’ assecondarono le mie intemperanze, ma quando un giorno me ne andai nel bel mezzo di una prova costumi perché il fiocco di un’attrice era del colore sbagliato, John ebbe il coraggio di seguirmi per cercare di capire cosa diavolo mi stesse succedendo.
- Scusami Terence ma così non è possibile andare avanti!
- Che cosa vuoi dire? – gli risposi alterato.
- Voglio dire che tutti fin dal primo momento abbiamo avuto fiducia in te e nel tuo modo di lavorare, nonostante a volte non sia facile stare dietro alle tue manie di perfezionismo, ma adesso stai veramente esagerando. Nessuno riesce a capire che cosa vuoi, un attimo dici una cosa e subito dopo affermi il contrario e vai in escandescenza per il minimo errore! Insomma, da quando sei tornato da New York non sei più lo stesso e così diventa difficile lavorare. Non sono l’unico a pensarla in questo modo. Perdonami, ma dovevo dirtelo.
John mi aveva parlato con cautela ma in maniera decisa e ferma. Lo avevo ascoltato con attenzione e non potevo certo dargli torto, ma come avrei fatto a spiegargli come mi sentivo. Qual era la causa del mio malessere!
- Non devi scusarti, hai perfettamente ragione … facciamo pausa per oggi. Domani ti assicuro che andrà meglio.
Mi incamminai verso l’uscita ma John mi chiamò di nuovo.
- Aspetta Terence, per caso è accaduto qualcosa a New York … tua madre?
- Mia madre sta bene, ti ringrazio. Non preoccuparti e scusami con tutti, ci vediamo domani – tagliai corto anche se mi dispiaceva non dare spiegazioni a John. Non potevo.
Nelle settimane che seguirono cercai con ogni mezzo di riprendere il controllo della situazione. Molte persone contavano su di me e si aspettavano che io dessi il massimo come sempre per ottenere il miglior risultato possibile. Avevo stabilito un programma molto intenso di prove e in pratica lavoravamo sette giorni su sette, tranne la domenica pomeriggio che avevo concesso libera. Uscivo da casa la mattina e non rientravo prima che fosse sera. Avevo una domestica, la signora Rose, che amorevolmente si prendeva cura di me per quello che le permettevo e mi faceva trovare sempre qualcosa di pronto per cena anche se spesso non toccavo cibo. Diceva che le ricordavo suo figlio e che anche lui smetteva di mangiare quando aveva qualche pena d’amore, ma si chiedeva in che modo uno come me potesse averne. Io negavo di avere problemi di cuore sforzandomi di sorridere, ma lei scuoteva la testa e poi prima di andarsene si scusava per aver parlato troppo.
Quando restavo da solo, prima di affrontare gli incubi della notte, mi sedevo al pianoforte e ogni sera finivo sempre per suonare la melodia del carillon che le avevo restituito e non potevo fare a meno di immaginare che anche lei la ascoltasse, dall’altra parte dell’oceano. Era l’unico momento in tutta la giornata in cui mi concedevo di pensare a Candy, pur sapendo bene che non avevo alcun diritto di farlo.
In quei momenti mi mancava tutto di lei e il ricordo di quella notte trascorsa insieme in teatro mi sconvolgeva l’anima e i sensi. Con nessuna donna avevo mai provato le sensazioni che aveva provocato in me stare con Candy. Sapevo bene che non le avrei mai potute ritrovare se non in lei e con lei. Perché? Semplice … perché l’amavo e non avevo mai smesso di farlo, nonostante c’avessi provato in ogni modo. Dovevo ammetterlo: Candy era l’unica donna con cui avrei mai potuto immaginare una vita insieme, con lei sentivo di poter essere completamente me stesso, senza essere giudicato ma solamente amato per ciò che ero.
Tuttavia pensavo di non avere il diritto di chiederle ancora di amarmi e di mettere di nuovo la sua vita nelle mie mani, dopo tutto il dolore che aveva dovuto sopportare a causa mia. In quel momento non capivo cosa aveva rappresentato per lei donarsi a me completamente. Mi ero preso la colpa anche di quello, dicendole che era stato un errore e che non avrei dovuto lasciarmi andare in quel modo. Lei mi aveva subito risposto che entrambi avevamo desiderato che accadesse, poi erano venuti a prenderla e se ne era andata senza altre spiegazioni. Io non credevo che lei lo avesse voluto, ma che avesse ceduto, spinta dalle circostanze e dalla situazione che si era creata e questo mi faceva sentire ancora più in colpa.
L’ultima settimana di prove era appena iniziata, sabato sera ci sarebbe stata la Prima di Sogno di una notte di mezza estate. In teatro c’era naturalmente molta agitazione, ma eravamo anche sicuri di aver dato il massimo fino a quel momento. Nessuno si era risparmiato, io in primis. Mancavano solo alcune rifiniture agli ultimi dettagli e tutto sarebbe stato perfetto. Ero più che soddisfatto del risultato raggiunto, nonostante le mille difficoltà di quei giorni ed ero sicuro che anche questa volta il pubblico avrebbe apprezzato il mio lavoro e quello dei miei attori. Alcuni di loro erano cresciuti molto negli ultimi anni: ero stato proprio io a scritturarli quando ancora erano del tutto sconosciuti e vederli ora calcare il palcoscenico con sicurezza e capacità mi riempiva di orgoglio.
Era giovedì pomeriggio ed io avevo appena terminato un’intervista come facevo sempre alla vigilia di una nuova rappresentazione, stavo per abbandonare il teatro da un’uscita secondaria perché in quei giorni la pressione della stampa si faceva sempre più asfissiante. Udii una voce chiamarmi con insistenza dal corridoio che portava ai camerini e mi fermai un istante, prima di salire in auto.
*****
New York
Erano passate circa tre settimane da quella notte ed io avevo preso la mia decisione.
Non avevo raccontato a nessuno quello che era successo con Terence, era una cosa solo nostra. Archie ed Annie avevano sicuramente intuito che rivederlo non mi aveva lasciata indifferente e soprattutto, da quando era ripartito per l’Inghilterra, il mio umore ed il mio stato di salute li preoccupava non poco. Avevo i loro occhi costantemente puntati addosso e questo mi infastidiva. In effetti non mi sentivo molto bene e la mia mente era continuamente occupata da un solo pensiero, ma non ero più una ragazzina e non volevo che mi si trattasse come tale.
Archie, che stranamente aveva fatto di tutto per farmi parlare con Terence, pensando evidentemente che per noi ci fosse ancora una possibilità, adesso sembrava aver cambiato idea e non voleva nemmeno sentirlo nominare. Credeva di aver riposto male la propria fiducia, avendomi spinta verso quell’uomo che assolutamente non mi meritava. Se ne era andato addirittura senza nemmeno lasciarmi un recapito, un indirizzo dove potergli scrivere.
- Mi dispiace molto Candy … non avrei dovuto dare credito ancora a quel farabutto, eppure mi sembrava che fosse cambiato …
- Ti prego Archie, non mi va di parlarne.
- Che cosa ti ha fatto? Dimmelo!
- Niente …
- Ma tu non stai bene, si vede … è per causa sua non è vero? Candy io vorrei solo vederti felice, nessuno se lo merita più di te.
- Ti ringrazio Archie, ma ti assicuro che va tutto bene, non preoccuparti. È solo un malessere passeggero, tra qualche giorno starò meglio.
Rispettava la mia riservatezza, ma avrebbe desiderato sapere cosa avessi nella testa e nel cuore. Lo stesso faceva Annie, spingendomi però a confidarmi. Una mattina venne a trovarmi nella mia stanza. Non mi ero ancora alzata dal letto e mi lasciavo cullare dalla melodia del carillon di Stear. Annie aveva pensato di portarmi la colazione probabilmente perché si era accorta che stavo mangiando pochissimo. Così entrò con un vassoio carico di prelibatezze.
- Buongiorno Candy, come ti senti stamattina?
- Buongiorno Annie, non dovevi disturbarti.
- Sei così pallida … forse è il caso che ti faccia visitare.
- Non è niente di grave, non preoccuparti. Comunque nel pomeriggio andrò in ospedale e farò qualche analisi se questo potrà tranquillizzarti.
- Ma quello non è il carillon di Stear? Credevo non funzionasse più. Sei riuscita a farlo aggiustare?
- Beh … in realtà … non sono stata io a farlo aggiustare …
- E chi allora, Archie?
- No … lo avevo perso in teatro, la notte che c’è stato l’uragano e poi … credo che Terence lo abbia trovato e me lo ha mandato prima di ripartire.
- Terence? Quindi è stato lui a ripararlo!
- Credo di sì.
Ci guardammo entrambe con aria stupita, evidentemente avevamo fatto lo stesso pensiero: non sembrava affatto un caso che fosse stato proprio Terence a trovare e riparare il carillon. Non le dissi altro comunque, tacendo in merito al biglietto. Ma Annie aveva altre intenzioni evidentemente e mi chiese se il mio malessere di quei giorni non fosse dovuto proprio all’incontro con Terence e alla sua partenza.
Io non risposi perché mi dispiaceva mentirle, ma non volevo che qualcuno si intromettesse tra noi questa volta. Volevo che fossimo solo Terry ed io a risolvere i nostri problemi, anche se per lui la questione sembrava definitivamente chiarita.
- Candy io non voglio essere indiscreta, ma temo che quella notte in teatro possa essere successo qualcosa che ti abbia molto turbato. Terence ti ha fatto del male … per caso?
- Cosa?! Terry non potrebbe mai farmi del male, come puoi pensare una cosa del genere!
- Beh, dopo il modo in cui si è comportato alla festa …
Mi alzai di scatto dal letto, non sopportavo sentir parlare in quel modo di lui.
- Terence è il ragazzo migliore del mondo! Avrà avuto i suoi motivi per fare quello che ha fatto alla festa.
Il modo in cui lo stavo difendendo rivelava evidentemente molto di più di quanto avrei voluto.
- Lo ami ancora, non è vero? – mi chiese Annie con tenerezza.
Presi il carillon e lo aprii dando il via a quella dolce musica.
- Non ho mai smesso – risposi.
Ci abbracciammo ed Annie sembrò aver capito ogni cosa, anche se non poteva fare molto per me.
Forse solo Albert avrebbe potuto aiutarmi, ma in quel periodo era lontano, in viaggio per lavoro. Ci tenevamo in contatto tramite lettera, ma quello che era accaduto non si poteva descrivere senza guardarsi negli occhi.
No, questa volta dovevo decidere da sola cosa fare!
In un primo momento pensai di prendermi una breve vacanza per trascorrere qualche giorno alla Casa di Pony. La serenità di quei luoghi a me tanto cari mi avrebbe di certo aiutato ad alleggerire i pensieri. L’affetto che mai mi avevano fatto mancare Miss Pony e Suor Lane era sempre stato un rifugio per me nelle situazioni difficili e mi aveva aiutato a ritrovare la mia strada.
Il pomeriggio mi recai in ospedale decisa a chiedere se fosse possibile avere qualche giorno di vacanza. Dissi che non mi sentivo troppo bene e così il dottor Evans mi spinse a fare una serie di semplici analisi di routine per stare tranquilli. Anche Archie ed Annie così mi avrebbero lasciata in pace, pensai.
Il giorno dopo, quando ebbi il risultato delle analisi, fu tutto chiaro. Non avevo più bisogno di prendermi del tempo per riflettere, sapevo già qual era la mia strada e poi … di tempo non ne avevo molto.
Scrissi una lettera dove comunicavo ad Archie ed Annie ciò che avevo deciso di fare, senza rivelare tuttavia le motivazioni che mi spingevano in quella direzione. Confidavo nella loro comprensione: entrambi conoscevano bene il potere dell’amore, il loro rapporto si era rafforzato negli anni ed ora erano inseparabili. La delicata Annie della St. Paul School si era trasformata in una donna indipendente ed Archie aveva persino sfidato la sua famiglia che all’inizio non vedeva di buon occhio il suo matrimonio con una ragazza di umili origini. Erano felici. Volevo esserlo anch’io e ora sapevo con assoluta certezza dove trovare la mia felicità.
Ad Albert avrei scritto in un secondo momento. Ero sicura che se gli avessi rivelato le mie intenzioni si sarebbe preoccupato e avrebbe voluto saperne di più. Conoscendolo avrebbe potuto anche lasciare di punto in bianco i suoi impegni di lavoro e correre in mio aiuto, se solo glielo avessi chiesto. Ma questa volta non era lui la persona che poteva aiutarmi e non era lui la prima persona che avrebbe dovuto sapere come stavano le cose. Confidavo nella sua comprensione, anche se non ero certa che in quell’occasione avrebbe appoggiato le mie scelte.
*****
Stratford upon Avon
settembre 1924
Shakespeare Memorial Theatre
- Non sono autorizzato a dare questo tipo di informazioni, non sa quante ragazze vorrebbero sapere dove si trova Terence Graham! Adesso mi segua …
- Che succede Jack? – irruppe improvvisamente alle mie spalle una voce maschile.
- Niente signor Duncan, le solite ammiratrici invadenti!
- Chi sta cercando la signorina?
Mi voltai e guardai in faccia quell’uomo dalla voce stentorea e calma, doveva essere senza dubbio un attore, per cui conosceva Terence.
- Provi a indovinare! – esclamò il custode lasciando intendere che la cosa doveva ripetersi spesso.
L’attore mi guardò, scrutandomi dalla testa ai piedi con attenzione.
- Sta cercando Terence Graham signorina?
- Sì.
- Per quale motivo vorrebbe vederlo, se posso chiedere?
- Ho bisogno di parlargli di una cosa molto importante …
- E perché dovrei crederle?
- Beh … perché … sono appena arrivata da New York e …
- Come ha detto … da New York?
Feci cenno di sì con la testa e lui si avvicinò.
- Mi perdoni, non mi sono neanche presentato: mi chiamo John Duncan, sono un attore e Graham è il mio regista. Posso sapere con chi ho l’onore di parlare? – mi domandò con un sorriso gentile.
- Candice Ardlay, piacere di conoscerla signor Duncan.
- Signorina Ardlay credo sia arrivato il momento di uscire! – mi intimò di nuovo il custode.
- Jack ci penso io alla signorina, non si preoccupi.
- Ma signor Duncan passerò un guaio se la trovano qui … lo sa quanto Graham sia inflessibile su certe cose …
- Parlerò io con Terence, stia tranquillo.
Il custode si allontanò controvoglia e l’attore mi fece cenno di seguirlo, facendomi accomodare in una piccola stanza che aveva l’aria di essere una sala d’attesa.
- Abbiamo appena terminato le prove, vado a vedere se Terence c’è ancora, mi aspetti qui – mi disse ancora una volta con gentilezza.
Io gli rivolsi un timido sorriso come ringraziamento e lui precisò che sarebbe tornato da me nel caso non avesse trovato Graham. Poi uscì e chiuse la porta.
Era stato davvero un colpo di fortuna incontrare il signor Duncan, un attore che lavorava con Terence … provai una profonda invidia nei suoi confronti perché poteva vederlo ogni giorno, parlare con lui … quanto mi mancava! Speravo con tutta me stessa che non se ne fosse già andato, speravo di potergli parlare anche se l’idea allo stesso tempo mi terrorizzava. Continuavo a camminare in lungo e in largo misurando il pavimento per cercare di calmarmi, ma inesorabilmente le sensazioni provate quella notte con lui mi tornavano alla mente e questo non mi aiutava affatto.
- Come potrò guardarlo negli occhi? Si renderà subito conto di quanto sia agitata e lui … come reagirà? Di sicuro non si aspetta di trovarmi qui …
Feci un gran sospiro buttando fuori l’aria insieme ai cattivi pensieri, estrassi dalla borsetta il mio carillon facendolo suonare per qualche istante, nell’attesa che la porta si aprisse.
- Terence aspetta! Per fortuna sei ancora qui.
- Cosa c’è John? Credevo che per oggi tu ne avessi abbastanza di me!
- Oh io si, ma c’è un’altra persona che ti cerca.
- Ho appena concluso un’intervista e non ho altri appuntamenti oggi, mi dispiace! – esclamai salendo in auto.
- Questa persona infatti non ha un appuntamento ma quello che ha da dirti credo sia molto importante!
- Fosse anche il Padreterno digli pure di ripassare un altro giorno! A domani John.
- Viene da New York!
Nonostante avessi già acceso il motore dell’auto, udii nitidamente quelle due piccole parole che John aveva pronunciato ad alta voce: New York. Mi affacciai al finestrino fissandolo con un’espressione che chiedeva spiegazioni.
- Si tratta di una ragazza, ma non mi è sembrata una semplice ammiratrice …
Non lo feci finire, spensi l’auto e scesi chiedendogli dove fosse.
- Nella saletta del foyer – mi gridò mentre rientravo di corsa in teatro, davanti alla sua faccia stupita. Credo fosse la prima volta che mi vedeva correre in quel modo.
Camminavo a passo svelto, perché un’idea folle si era già impossessata di me: possibile fosse lei?
Passai in mezzo ad un gruppetto di attori che mi salutarono chiedendosi sicuramente cosa mi avesse fatto agitare in quel modo. Arrivato davanti alla porta indicatami da John, mi bloccai passando in rassegna tutte le ragazze che potevano essere venute lì da New York. Mi veniva in mente solo lei ed avevo una paura fottuta di crederci! E poi che cosa le avrei detto? Dopo il modo in cui me n’ero andato, dopo quello che le avevo fatto … con che coraggio avrei potuto guardarla in faccia!
Per un attimo fui sul punto di andarmene.
Gli attori che avevo incontrato prima attraversarono il foyer per lasciare il teatro, uno di loro mi salutò di nuovo a gran voce ed io gli risposi cercando di sbloccare la mia gola stretta in un nodo. Pensai che dall’interno della stanza lei mi avesse sentito, non potevo più tirarmi indietro.
Allungai la mano e senza bussare aprii la porta. Un’inconfondibile chioma bionda mi accolse confermando l’identità della ragazza che aveva chiesto di me. Rimasi immobile, con la mano sulla maniglia, mentre lei si voltava lentamente. Mi guardò.
Non saprei descrivere ciò che vidi e cosa questo mi provocò dentro al petto. La sua espressione così tenera e i suoi occhi che con evidente difficoltà si sforzava di mantenere fissi su di me avevano da sempre il potere di abbattere ogni mia difesa e anche in quel momento rischiai seriamente di gettare via la maschera. Poi cercai di tornare in me e …
- Candy, che cosa ci fai qui? – le chiesi con voce ferma con l’intenzione di non tradire alcuna emozione.
- Scusami io … non sapevo dove trovarti e ho pensato … non era mia intenzione darti fastidio mentre stai lavorando …
- Le prove sono appena terminate, stavo per andarmene.
- Lo so, il signor Duncan me lo ha detto, è per questo che ho creduto di poterti parlare, ma se ti disturbo posso anche tornare …
- Non c’è alcun problema! – esclamai di nuovo azzerando con un colpo di tosse il tremolio della mia voce.
In quell’istante mi si avvicinò il custode dicendomi che stava per chiudere.
- Certo Jack, ce ne andiamo subito. Chiudi pure, noi usciamo dall’ingresso sul retro. Feci cenno a Candy di seguirmi. Attraversammo in silenzio il corridoio che portava all’uscita degli artisti. Le indicai la mia auto e la invitai a salire.
Uscii dal parcheggio senza sapere bene dove andare. Eravamo evidentemente entrambi piuttosto nervosi. Le chiesi quando fosse arrivata.
- Due ore fa.
- Senti … io non posso girare liberamente per Stratford, sabato debuttiamo con il nuovo spettacolo e la città è piena di fotografi, domani saremmo su tutti i giornali. Ti dispiace se … andiamo a casa mia?
- Come preferisci.
La zona dove abitavo non era molto distante dal teatro, anche se piuttosto isolata, era sufficiente attraversare il fiume Avon e ci si ritrovava immersi in una area verde caratterizzata da piccoli cottage e grandi giardini. In pochi minuti arrivammo a destinazione.
Il sole stava tramontando e alcune nuvole grigio-azzurre avevano già riempito la parte più alta del cielo che sarebbe stato attraversato ancora per poco da un lungo nastro dorato. Ci sedemmo in salotto inondato da quella luce sottile e calda. Le chiesi se avesse bisogno di qualcosa e lei accettò volentieri del tè.
Ci guardammo in silenzio per qualche istante.
- Sei venuta fin qui per parlare con me? – le chiesi, sapendo di non avere altra scelta se non quella di ascoltarla.
- Sì … e non chiedermi di cosa perché lo sai già!
Capitolo sette
Stratford upon Avon
settembre 1924
Dalla finestra sul fiume filtrava ormai solo una flebile luce azzurrina. Dopo aver poggiato il vassoio del tè sul tavolino, Terence accese una lampada che illuminò l’angolo del salotto dove ci trovavamo. Poi si sedette su una poltrona vicino al divano su cui mi aveva fatto accomodare. Si era tolto la giacca, restando in camicia di cui aveva liberato i primi bottoni. Sembrava rilassato, al contrario di me che avevo il respiro corto e il cuore a mille. Tendevo a dimenticare però che avevo davanti un grande attore.
Per qualche minuto sorseggiammo il tè in silenzio. D’un tratto il rumore della tazzina sul piattino mi apparve come un segnale, come se fosse giunto il momento di parlare.
Terence si appoggiò allo schienale della poltrona, allungando le gambe, accese una sigaretta e mi guardò in attesa evidentemente che io mi decidessi a rivelare il motivo che mi aveva spinto ad attraversare l’oceano pur di vederlo.
Insieme alla mia tazza misi sul tavolino il carillon che avevo tirato fuori dalla borsa, posandolo proprio davanti a lui. Alzando un sopracciglio mi fece intendere che non capiva il senso del mio gesto.
- Lo hai trovato in teatro vero?
Terence annuì espirando il fumo della sigaretta.
- E lo hai aggiustato?
- Non ho fatto granché in realtà … è bastato poco per farlo ripartire – rispose con sufficienza.
Sorrisi.
- Questo carillon lo ha costruito Stear e me lo ha regalato la mattina che sono partita per New York, per venire da te. Mi disse che lo aveva chiamato “carillon della felicità”. Non potevo immaginare che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei visto. Aveva già deciso di partire volontario per la guerra.
Interruppi il mio racconto, commossa dal ricordo di Stear. Ogni volta che parlavo di lui non potevo fare a meno di pensare a quanto io fossi felice quella mattina alla stazione mentre lui stava andando incontro alla morte.
Terence mi aveva ascoltato in silenzio. Quando avevo nominato Stear aveva spento la sigaretta e si era seduto ripiegando le gambe e portando in avanti il busto con i gomiti poggiati sulle ginocchia.
- Quando lasciai Londra mi disse che gli sarebbe piaciuto se avessimo inventato qualcosa insieme – disse pensieroso.
- Adesso lo avete fatto!
- Già, ma io ho fatto ben poco te l’ho detto!
- Da quella notte aveva smesso di funzionare. L’avevo portato a far riparare ma nessuno ci era riuscito, mi avevano detto che l’ingranaggio era danneggiato e che sarebbe stato più semplice comprarne uno nuovo.
- Si sbagliavano.
- Infatti! Anche quando tutto può sembrare irreparabile, a volte basta un piccolo gesto per cambiare le cose. Dentro al carillon ho trovato il tuo biglietto con cui mi chiedi di perdonarti … “per tutto”. Cosa significa?
Vidi la sua espressione cambiare, divenendo cupa. Abbassò lo sguardo, poi si alzò in piedi e andò verso la finestra, dandomi le spalle, le mani in tasca.
- Dovresti saperlo.
- Forse, ma ho bisogno di sentire cosa pensi tu perché io non riesco a capirti.
- Ho molte cose da farmi perdonare da te … potrei farti una lunga lista.
- Ti ascolto.
Fece un profondo sospiro, come se parlare gli costasse tanto.
- La prima cosa che ho sbagliato è stato invitarti a Broadway poi, non contento, non ti ho parlato di Susanna, e quando tu hai saputo quello che era successo, come un vigliacco ti ho lasciata andare via, disperata e sola. Non sono stato capace di proteggerti né di difendere il nostro …
La sua voce iniziò a tremare e si fermò. Mi alzai dal divano e mi avvicinai a lui.
- Il nostro … amore, è questo che dovevi proteggere? – gli chiesi con un filo di voce.
Si voltò verso di me, fissandomi, con la mano mi carezzò la guancia.
- Sì … avrei dovuto prendermi cura del nostro amore, di te … non di lei.
Dopo queste parole non ricordo più niente. La mia vista iniziò ad annebbiarsi e la testa a girare vorticosamente. Sarei di sicuro caduta per terra se Terence non mi avesse preso al volo.
- Candy che ti prende? Mi senti? … Candy!
La presi in braccio e poi la feci stendere sul divano. Aveva le mani fredde ed era molto pallida. Per fortuna dopo pochi istanti aprì gli occhi e mi chiese cos’era successo.
- Non lo so, per qualche istante hai perso i sensi e sei svenuta. Come stai ora?
- Bene, non è niente … solo un calo di pressione, il viaggio credo …
Le versai un altro po’ di tè con molto zucchero e le sue guance ripresero un leggero colore.
- Forse è meglio che ti riposi adesso.
- Sì … devo tornare in albergo.
- In albergo? Non mi sembra il caso, tu rimani qui.
- Ma Terence … ho tutte le mie cose …
La interruppi e dopo essermi fatto indicare in quale albergo avesse prenotato, telefonai e detti indicazioni affinché il bagaglio di Miss Ardlay venisse consegnato al più presto al mio indirizzo. Poi tornai da lei e sorridendo le dissi di stare tranquilla:
- Ho una stanza per gli ospiti!
Salimmo al primo piano dove si trovavano le camere. Terence mi accompagnò fino alla mia, portando la valigia. Prima di lasciarmi si assicurò che stessi bene e che non avessi bisogno d’altro. Gli risposi che era tutto a posto e lo ringraziai. Mi augurò la buonanotte e se ne andò verso la sua stanza dalla parte opposta del corridoio.
Mi dispiaceva molto che il nostro dialogo si fosse interrotto in quel modo, ma ero davvero stanca e mi misi subito a letto con ancora sulla guancia la dolce sensazione della sua carezza.
Dormii profondamente e quando mi svegliai notai subito un biglietto sul pavimento. Scesi dal letto di corsa. Era suo, forse lo aveva fatto scivolare sotto la porta evitando di entrare.
Buongiorno Candy, probabilmente quando ti sveglierai io sarò già uscito. Avrò molto da fare in teatro oggi e non tornerò prima di sera, mi dispiace. Aspettami se puoi e vedi di non svenire in mia assenza!
PS: Verso le 10 arriverà la domestica, la signora Rose, le ho detto di occuparsi di te quindi per qualsiasi cosa conta pure su di lei.
A più tardi, Terry
- Vuole che lo aspetto … certo che ti aspetto!
Credo che quello sia stato il buongiorno più bello che io avessi mai ricevuto fino a quel momento.
In teatro mi attendeva un gran lavoro quel giorno. La mattina ci sarebbe stata una prova generale e un’altra al pomeriggio con i costumi di scena. Ero decisamente teso e ciò che era accaduto la sera prima non mi aiutava affatto.
L’arrivo di Candy aveva fatto barcollare di nuovo tutte le mie certezze soprattutto quella di starle lontano. Lei adesso era lì, a casa mia: potevo fingere che questo non mi sconvolgesse? Avevo praticamente trascorso la notte senza chiudere occhio, chiedendomi cosa avrei dovuto fare. Lei aveva attraversato l’oceano per venire da me, potevo rimandarla indietro senza confessarle la verità?
- Buongiorno Terence … scusami se te lo chiedo ma … ti senti bene?
- Buongiorno John, effettivamente sono un po’ nervoso. Diciamo che sabato, dopo lo spettacolo, starò meglio … forse!
- Non sarà invece a causa di Miss Ardlay che stai così?
Lo sguardo di fuoco che rifilai a John, quasi fulminandolo, gli fece capire velocemente che non era il caso di tirare in ballo quell’argomento e lui alzò le mani in segno di resa.
- Concentriamoci su Shakespeare! – gli dissi.
Per tutto il giorno anch’io imposi ai miei pensieri di occuparsi solo di Teseo e Ippolita, Demetrio, Elena, Titania e Puck. Dopo ore ed ore in cui ogni battuta venne ripetuta più volte, fino allo sfinimento, mi complimentai con i miei attori e attrici per l’ottimo lavoro svolto nelle ultime settimane.
Anche il direttore del teatro, Mr. William Bridges-Adams, era presente quel pomeriggio e si mostrò decisamente soddisfatto del risultato. Mi disse che avevo fatto un lavoro straordinario e che era sicuro che avremmo ottenuto un successo strepitoso.
La sera che precedeva la Prima di uno spettacolo ero sempre carico di adrenalina, completamente immerso nella storia, abitavo un altro mondo, lontano anni luce dalla realtà che mi circondava, ma allo stesso tempo profondamente legato a questa perché i personaggi di Shakespeare non erano figure astratte distaccate dalla vita, bensì incarnavano la vera essenza della vita stessa.
Ma quella sera c’era qualcosa di diverso.
Tornai a casa verso le 9. Entrai con l’auto nel vialetto, mi fermai e spensi il motore. Tutto era immerso in un profondo silenzio, interrotto soltanto dal mormorare del fiume. Le luci erano spente. Immediatamente ebbi il timore che se ne fosse andata.
Aprii il portone d’ingresso, attraversai il salotto deserto e arrivai in sala da pranzo. Sorrisi davanti alla tavola apparecchiata per due e mi sentii sollevato. Mi guardai intorno sperando di trovarla ma niente. Eppure doveva essere lì. Udii la porta a vetri della terrazza aprirsi e mi voltai. La vidi entrare con dei fiori in mano. Si fermò quando si accorse che ero lì e la sua espressione stupita mi fece capire che non mi aveva sentito arrivare. Mi sorrise e questa volta fui io a rischiare di svenire.
- Bentornato – mormorò.
- Grazie. Come stai?
- Bene – rispose, andando verso la tavola per sistemare i fiori – La signora Rose mi ha aiutato a preparare qualcosa per cena, ho pensato che tu fossi affamato.
Non mi aspettavo niente del genere e rimasi senza parole. Lei fraintese il mio esitare e si incupì.
- Non ho pensato che forse avevi già mangiato … a quest’ora.
- No no, non ho mangiato niente e sono davvero affamato. Vado a cambiarmi e torno subito.
Ci sedemmo a tavola e, dopo un iniziale imbarazzo, parlammo un po’ di come era andata la giornata. Candy mi raccontò che la mia domestica era una gran chiacchierona e che le aveva rivelato un sacco di cose su di me, poi scoppiò a ridere confessando che mi stava prendendo in giro. Anch’io sorrisi per aver creduto al suo scherzo. Mi chiese di come era andata la prova generale. Le confidai che mi aspettavo molto da questa commedia e che dopo avrei deciso se continuare con la regia oppure tornare a calcare il palcoscenico.
- Ti manca?
- Sì. Mi sono ritrovato in questi giorni ad invidiare i miei attori. Curare la regia di uno spettacolo, costruirlo dal nulla e vederlo crescere dà molta soddisfazione, ma recitare è diverso!
- E com’è?
- Beh … è un po’ come in amore: immaginarlo, sognarlo è bello, ma viverlo è un’altra cosa!
Candy mi guardò silenziosa dopo le mie ultime parole, forse aveva in mente di riprendere il discorso che avevamo interrotto la sera prima, pensai.
- Usciamo? – le chiesi.
Acconsentì.
Ci sedemmo sul dondolo in terrazza. L’aria della sera era piuttosto fresca, ma gradevole. Cercai di rilassarmi e chiusi gli occhi, poggiando la testa all’indietro. Candy fece lo stesso e restammo per un po’ in silenzio, lasciandoci cullare dal canto dei grilli.
La sentivo respirare e per un attimo volli credere di poter essere ancora felice. Nessuno dei due sembrava avere intenzione di parlare. In quel momento non volevo farmi domande e probabilmente neanche lei. Per la prima volta mi sfiorò l’idea che forse avremmo potuto tentare di dimenticare il passato, gli errori commessi e tutto il dolore che era seguito, sia per lei che per me.
In quel momento eravamo solo un ragazzo e una ragazza, seduti vicini, sotto un cielo pieno di stelle. Mi sentivo come se quello fosse il nostro primo appuntamento e non osavo guardarla perché sarebbe stato troppo pericoloso, ma volevo farle capire che ero felice che lei fosse lì con me.
- Ti piacerebbe venire a teatro domani sera? – le chiesi.
Lei esitò, poi mi disse di sì ed io mi sentii scoppiare il cuore.
- Candy io …
- Non dire niente, non stasera. Si sta così bene, non è vero?
- Sì, molto.
Rimanemmo ancora un po’ in silenzio, respirando l’aria profumata del giardino.
- Sarai stanco.
- Un po’.
- Domani ti aspetta una giornata importante, perché non vai a dormire?
- Hai ragione, è meglio che vado – le dissi trovando il coraggio di guardarla.
Anche lei si voltò verso di me, ci fissammo per qualche istante, entrambi senza respirare.
- E tu non vai a dormire?
- Resto ancora un po’ qui fuori.
- Allora … buonanotte.
- Buonanotte Terry.
Poco dopo nella mia stanza ripensavo alla dolcezza di quei momenti trascorsi con lei. Poteva essere davvero così tra noi? Così … così … semplice!
Non avevo mai provato con nessuna la sensazione che sentivo con lei vicino a me, in quella casa che poteva essere la “nostra casa”. Mi stupiva la percezione di sentirmi in pace con il mondo, come se non mi mancasse più niente solo perché avevo Candy al mio fianco. In realtà non mi sentivo in diritto neanche di pensarlo, ma lei era lì e non era andata via, aveva aspettato che tornassi. Mi amava? Ed io potevo concedermi il lusso di lasciarmi amare e di amarla? Sarei stato capace di farlo? Fino al giorno prima avrei giurato di no, ma adesso che lei era lì tutto mi sembrava così chiaro. Era solo un’illusione?
Quando poco dopo salii in camera, notai che dalla porta di Terry filtrava ancora la luce. Era sveglio?
Era stato così bello prima in terrazza! Gli avevo impedito di parlare perché desideravo solo assaporare quei brevi istanti insieme. Possibile che anche lui non provasse le mie stesse sensazioni? Mi era apparso così tranquillo, sia durante la cena che dopo. Quei minuti trascorsi seduti vicini, in silenzio, erano stati quasi perfetti, mancava soltanto una cosa: quanto avrei voluto stare tra le sue braccia! Il contatto con lui mi mancava da morire, ma non sapevo se anche per Terry valesse lo stesso o se ancora considerasse un errore la notte trascorsa insieme a New York.
*****
Capitolo otto
- Quando ieri sera sono tornato a casa per un attimo ho temuto che tu te ne fossi andata. Mi sono sentito sollevato solo quando ho visto la tavola preparata per due.
Sorrisi mentre lui parlava e mi teneva le mani. Aveva l’aria seria e la voce tesa, vibrante, come se gli venisse non dalla gola ma dal cuore.
- Allora ho capito.
- Che cosa?
- Che ti volevo qui con me.
- Quindi è stata sufficiente una cenetta per farti gettare la maschera … a saperlo! – scherzai perché quello che aveva appena detto era troppo bello per essere vero e forse era meglio pensare che anche lui stesse scherzando.
- Mmmm … secondo me ha fatto tutto la mia domestica!
- Non è affatto vero! Negli ultimi mesi, grazie ad Annie, sono molto migliorata in cucina … - continuai a stare al gioco, ma lui tornò serio.
- Sei molto migliorata è vero … non solo in cucina … - mi sussurrò e mi guardò prima di avvicinarsi così tanto al mio viso da poter sentire il suo respiro caldo sulle mie labbra.
A conferma delle sue ultime parole lo baciai e lui si lasciò baciare. Quando mi allontanai mi sorrise leggermente e non si mosse, come in attesa. Non potevo deluderlo, mi dissi, e lo baciai ancora, stringendogli il viso con le mani. Questa volta rispose al mio bacio, mi strinse alla vita con le braccia e mi sollevò, mi aggrappai al suo collo incrociando le mie dietro la sua testa. Ci baciammo a lungo, pericolosamente, considerando che ci trovavamo nella sua camera.
Non credevo di essere in grado di opporre resistenza a qualsiasi cosa potesse accadere tra noi. L’euforia di sentirlo mio e di essere sua non mi lasciava scampo.
Squillò il telefono.
Terence continuava a baciarmi tenendomi stretta a lui, su di lui in realtà perché i miei piedi non toccavano terra.
Il telefono squillò ancora.
- Dovresti rispondere – gli suggerii in un attimo in cui mi aveva liberato le labbra per riprendere fiato.
Non sembrava minimamente aver capito, anche se mi poggiò a terra, prendendomi le guance con le mani per essere sicuro che non mi allontanassi da lui.
Mi baciò la fronte, gli occhi, poi si tuffò letteralmente nel mio collo. Rischiai di svenire di nuovo, stordita dal desiderio di lui che i suoi baci risvegliavano prepotentemente.
Il telefono continuava a squillare.
Cercai di riprendere il controllo, poteva essere importante, pensai. Lo chiamai, lui mormorò un “no” con la testa persa nei miei capelli che nel frattempo aveva sciolto non sapevo nemmeno io come e quando.
- Terry il telefono … continua a squillare … credo che dovresti rispondere …
Tentai di fermarlo, benché questo mi costasse molta fatica (non volevo fermarlo!). Ci ritrovammo ansimanti, fronte contro fronte. Gli sorrisi mentre mi guardava accigliato.
Dopo una breve pausa il telefono riprese a squillare.
Sbuffò, mi teneva per mano mentre scendevamo la scala per arrivare in salotto. Mi lasciò per rispondere mentre io mi sedevo sul divano, cercando di riprendermi.
Tornò da me dopo pochi minuti e si sedette vicino.
- Era mia madre, sapeva della Prima di stasera e voleva chiedermi com’era andata.
- Hai fatto bene a rispondere allora, altrimenti si sarebbe preoccupata. Le dispiace molto che tu sia così lontano.
Mi abbracciò e mi attirò di nuovo a sé, facendomi sdraiare con le spalle sul suo petto.
- È molto tardi, vuoi che andiamo a dormire? – mi chiese.
- No.
Quella breve interruzione sembrava aver placato il nostro folle desiderio, ma non avevamo comunque intenzione di separarci.
Restammo abbracciati sul divano, appiccicati l’uno all’altra, accarezzandoci e respirandoci. Forse ancora non ci credevamo, non credevamo possibile che stesse accadendo davvero. Eravamo insieme, per la prima volta consapevoli reciprocamente di ciò che volevamo ed eravamo felici!
Il silenzio che ci avvolgeva era interrotto solo da una leggera pioggia che da qualche minuto aveva iniziato a cadere. Era una pioggia dolce che sembrava volerci proteggere, proteggere questo nostro sentimento che stava rinascendo e che aveva bisogno di essere coccolato, lontano da tutto e da tutti. Era solo nostro!
Anche le braccia di Terence che mi stringevano desideravano la stessa cosa: proteggere il nostro amore. Sospirò di piacere e lentamente avvicinò la sua bocca alla mia tempia dove si fermò e sussurrò qualcosa, due piccole parole.
- Ti amo.
Lo aveva detto, aveva detto proprio questo?
Esitai un istante poi mi voltai a osservarlo. Il suo sguardo intenso e caldo mi dette conferma delle sue parole.
- Da sempre e per sempre – aggiunse con gli occhi incollati ai miei.
- Anch’io ti amo Terry, non ho mai smesso.
Era ormai notte inoltrata quando ci addormentammo. L’alba ci sorprese ancora abbracciati sul divano. Mi svegliai per prima e rimasi in silenzio ad osservarlo per un po’. Era così bello.
Il suo petto saliva e scendeva dolcemente sotto la camicia leggermente aperta. Le braccia avevano allentato un po’ la presa, ma non mi avevano lasciata. Mi sentivo in pace con il mondo perché lui era il mio mondo.
Fuori continuava a piovere, qualche tuono ogni tanto brontolava in lontananza. Quando fece un leggero movimento allungando le gambe, mi tirai su pensando che stesse scomodo dopo ore nella stessa posizione.
- Dove vai? – mi chiese immediatamente, con gli occhi ancora chiusi, afferrandomi per la vita.
- Buongiorno – gli risposi.
Aprì gli occhi mezzo addormentato ma abbastanza sveglio per avere la forza di attirarmi di nuovo a sé come se ormai quel gesto gli venisse automatico, senza bisogno di pensarci. Mi sfiorò le labbra con un morbido bacio, prima di rispondere al mio buongiorno.
- Che ne dici se andiamo a cambiarci e poi facciamo colazione? – gli chiesi dal momento che avevamo ancora indosso gli abiti eleganti della sera prima.
- Restiamo ancora un po’ così, vuoi?
Come risposta lo abbracciai, avvicinando la mia guancia alla sua. Chiusi gli occhi di nuovo e inspirai profondamente il profumo che emanava la sua pelle. Mi aveva chiesto di restare ancora un po’, io sarei rimasta così per sempre, pensai.
Infatti ci volle ancora molto prima che trovassimo la forza di alzarci da quel divano per andare a cambiarci. Dopo pochi minuti eravamo di nuovo insieme, in cucina, a sorseggiare del tè. La nostra prima colazione insieme: una cosa normale eppure per noi incredibilmente straordinaria.
- Hai da fare oggi? – gli chiesi.
- No, oggi riposo.
- Che cosa facciamo allora?
- Non saprei … piove! Direi che non è il caso di uscire.
Lo guardai perplessa, cercando di capire che cosa avesse in mente perché il sorrisetto con cui aveva detto “piove” non me la raccontava giusta.
- Lo sai che hanno inventato gli ombrelli?
- Sì ma … fa freddo! – esclamò fingendo di rabbrividire.
- Quindi?
- Potremmo starcene qui, al calduccio, soli soletti, poi … - mormorò al mio orecchio abbracciandomi da dietro.
- Poi …?
- Poi vediamo … - rispose proseguendo con piccoli baci morbidi lungo il mio collo, dopo avermi spostato di lato i capelli.
Mi appoggiai a lui con la schiena, passandogli una mano intorno alla nuca, godendo di tutta la dolcezza di cui mi stavano ricoprendo le sue labbra. Le sue mani dalla vita si spostarono sui fianchi, scendendo poi delicatamente fino al mio ventre. A quel punto pensai che fosse giunto il momento di dirglielo. Ora che ci eravamo dichiarati apertamente i nostri sentimenti, non c’era più niente che potesse ostacolare il nostro amore, dunque era giusto che lui sapesse. Nonostante avesse detto chiaramente di amarmi, mi sentivo comunque agitata e non sapevo da dove cominciare, del resto era la prima volta che mi trovavo in quella situazione.
- Terry aspetta … - gli dissi prima di tutto perché avevo bisogno della sua attenzione, mentre sembrava completamente preso da altro.
- No … il telefono non sta squillando, anche perché l’ho staccato!
Sorrisi.
- Ti prego dobbiamo parlare, devo dirti una cosa molto importante.
- Dopo … - mugugnò, prendendomi in braccio.
- No adesso … dai mettimi giù, ti prego, è davvero importante!
- È una cosa bella?
- Sì credo, per me lo è!
- Se è bella per te lo sarà anche per me – disse facendo tornare i miei piedi per terra.
- Prima devi rispondere ad una domanda però.
- D’accordo – brontolò alzando gli occhi al cielo.
- Consideri ancora un errore la notte che abbiamo trascorso insieme, a New York?
- Che domanda è! – esclamò con le mani sui fianchi.
- Rispondi.
Ci pensò un po’ … poi …
- Beh in un certo senso … sì.
- Come sarebbe sì! – esclamai sbigottita dal momento che non mi aspettavo assolutamente una risposta del genere.
Lui evidentemente notò la mia agitazione e tentò di raddrizzare il tiro.
- Di sicuro non mi aspettavo che accadesse quella sera … in quel modo …
- Che vuoi dire? Che sono stata io ad insistere?
- Non ho detto questo Candy!
- Però se potessi tornare indietro non lo rifaresti! Ti sei pentito! Dillo avanti … ti sei pentito? - quasi gli gridai.
- Ma no … che dici?
Io però nemmeno aspettai la sua risposta e corsi fuori.
- Candy che fai … aspetta … dove vai?
Uscii in giardino, incurante del fatto che stesse diluviando, cosa che per un attimo mi fece fermare dando modo a Terence di raggiungermi.
- Sei impazzita! Che ti prende? – gridò afferrandomi per un braccio.
- Che cosa ci sto a fare io qui? – gli chiesi, stringendo i pugni.
- Ma che dici? Non ti capisco … ti prego torniamo dentro.
- No! Se ti sei pentito di aver fatto l’amore con me quella notte … che senso ha dirmi che mi ami?
- Candy accidenti … non mi sono pentito e ti amo … ti amo da morire, ho solo detto che la nostra prima volta l’avevo immaginata diversa, ma è stato ugualmente bellissimo e ora non riesco a capire che cosa ti sconvolga tanto!
La pioggia fattasi più intensa si mescolava alle mie lacrime che annebbiavano la mia vista ma ugualmente riuscivo a percepire la confusione sul suo viso e i suoi dolcissimi occhi che mi guardavano pregandomi di spiegargli cosa stesse succedendo.
- Non capisci perché non sai … - mormorai.
- Che cosa non so? – mi chiese spaventato con un filo di voce.
- Che aspetto un bambino.
- Come hai detto?
- Aspetto un figlio Terry, un figlio tuo!
Non potrò mai descrivere la faccia di Terence in quel momento: incredulità, stupore e paura all’inizio, poi i suoi occhi mi hanno sorriso prima che le sue labbra facessero lo stesso.
Mi sollevò di peso e mi portò in casa. Mi mise a terra e chiuse la porta. Eravamo bagnati fradici. Non aveva ancora detto una parola, lo fece solo dopo avermi stretta di nuovo tra le sue braccia. La sua voce era un sussurro carico di tenerezza.
- Da quanto tempo lo sai?
- Circa due settimane.
- Perché non me lo hai detto subito, quando sei arrivata?
- Non potevo, prima volevo che tu fossi sicuro dei tuoi sentimenti.
- Lo vedi che ho ragione … quella sera non ti ho nemmeno detto che ti amo!
- Io l’ho capito lo stesso, ma avevo bisogno che lo capissi anche tu!
- Chi lo sa oltre a noi?
- Nessuno.
- Nessuno?
- Tu avevi il diritto di saperlo prima di tutti.
- Io? Io che ho fatto di tutto per farmi odiare da te?
- Ma non ci sei riuscito per fortuna! – esclamai prima di starnutire.
- Meglio che ci togliamo questi vestiti bagnati di dosso.
Acconsentii a andammo a cambiarci. Avevo quasi finito quando udii bussare alla porta. Andai ad aprire e me lo trovai davanti.
- Posso entrare?
- Certo.
Si sedette su una poltrona mentre io finivo di spazzolare i capelli dopo averli asciugati. Non riuscivo a capire cosa gli passasse per la testa, ma non volevo fargli domande. Ero sicura che sarebbe stato lui a parlare, dopo aver messo a fuoco le proprie emozioni.
D’un tratto si alzò e mi venne vicino, prese le spazzola dalla mia mano e continuò quello che io stavo facendo.
- Non credo di esserne capace …
- Di fare cosa?
- Di esprimere ciò che sento in questo momento e mi dispiace. So solamente che non mi sono mai sentito così in tutta la mia vita! Forse … sono semplicemente … felice, per la prima volta e vorrei sapere se anche per te è così.
Mi alzai e lo guardai. La dolcezza del suo sguardo mi riempì il petto di calore e compresi che le parole non sarebbero servite per raccontare la perfezione di quell’istante. Lo abbracciai e gli dissi mille volte che lo amavo e che la felicità che provavo era così grande da farmi quasi paura. Ma non volevo più avere paura, mai più.
- Mi dispiace di non essere stato con te quando lo hai saputo. Se penso poi che hai dovuto affrontare tutto da sola, il viaggio e anche la mia cocciutaggine quando sei arrivata qui …
- L’importante è che tu ci sia d’ora in poi!
- Non devi mai più dubitare di questo!
La guardo. La guardo e non resisto più. Potrei morire se non la bacio. Lo faccio.
- Voglio che iniziamo insieme un’altra vita – le dico in mezzo ai baci.
- Non chiedo altro!
Mi guarda e in un attimo capisco che è stato inutile rivestirsi. Stringo le sue mani e le nostre dita si intrecciano così come i nostri respiri. Vedo solo i suoi occhi e mi perdo, felice di farlo.
Inizio a spogliarla con calma, ho tutto il tempo che voglio. Da qui all’eternità non farò altro, penso mentre le scopro le spalle liberandole dal vestito. Lei fa lo stesso con la mia camicia e in un attimo sento la sua pelle sulla mia. La sensazione più inebriante che io abbia mai provato. Non saprei dire a quale folle ritmo il mio cuore abbia iniziato a martellarmi nel petto. La sollevo e lei stringe le gambe intorno ai miei fianchi ed io sono sul punto di svenire. La guardo un istante, estasiato, perché lei sappia quale effetto ha su di me. Mi sorride e arrossisce, mentre piega leggermente la testa da una parte, offrendo alla mia vista ciò che di lei mi fa letteralmente impazzire: mi avvento sulla pelle morbida del suo collo consapevole dei segni che le lascerò per diversi giorni. Ma non resisto, perdonami, non resisto e finiamo sul letto!
Cade all’indietro sul letto ed io mi ritrovo sopra di lui. A giudicare dalla sua espressione credo che non gli dispiaccia affatto trovarsi in questa situazione e neanche a me. Allunga le braccia per tirarmi giù, ma indietreggio e glielo impedisco. Mi guarda sorpreso quando si rende conto che sono io a condurre il gioco questa volta.
- Chiudi gli occhi – gli sussurro all’orecchio e da qui inizio a baciarlo.
Proseguo lungo il collo, le spalle, sul torace indugio forse più del dovuto e lo sento chiamare il mio nome, mi sta pregando forse?!
- Non puoi continuare così! – esclama rialzandosi e impossessandosi della mia bocca.
Sono seduta sulle gambe. Mi attira a sé sollevandomi e poi si volta. Entrambi siamo sdraiati sul letto adesso. Sorridiamo insieme, brucianti di desiderio e felici.
Si alza e finisce di spogliarsi, poi torna da me, ma si ferma come se avesse ricordato qualcosa.
- Non è pericoloso vero? – mi chiede esitante.
Lo adoro e gli dico di stare tranquillo.
Si stende su di me ed io lo lascio fare perché è ciò che voglio: lui, solo lui. Il piacere fisico che ci doniamo l’un l’altra è il naturale proseguimento di tutto ciò che ci unisce. In ogni gesto che facciamo c’è il nostro amore che brilla in mille piccoli frammenti di luce.
Ora so che l’amore esiste e che non ha confini né di tempo né di spazio. Il nostro ha resistito per anni e ha attraversato continenti, ma è ancora qui. Lo vedo nei suoi occhi verdi accesi di passione, nelle sue labbra tremanti che aspettano le mie, nel suo cuore che batte forte e tiene il ritmo della nostra unione. Lei è mia ed io sono suo, è stato così fin dal primo istante e se per essere qui adesso abbiamo dovuto attraversare l’inferno, non ha importanza.
I nostri corpi nudi che diventano uno solo rappresentano l’immagine concreta delle nostre anime che non hanno mai smesso di parlarsi anche quando eravamo lontani. Ciò che proviamo l’uno per l’altra ci ha accompagnato in tutto questo tempo come una presenza costante vicino a noi che ci suggeriva tacitamente di andare avanti perché questo giorno sarebbe arrivato. Ci sono stati momenti in cui non ho più creduto in noi, momenti in cui il dolore era troppo forte e mi sono perso. Ma poi accadeva sempre qualcosa che mi faceva tornare a sperare che tu ci fossi ancora, almeno nel mio cuore da dove non te ne sei mai andata.
Ora lo so e lo sai anche tu.
*****
- Che cos’è che mi ha tradito quella notte?
- Tutto quanto!
- Tutto?!
- Sì, fin dall’inizio … quando mi hai detto “Lentiggini non fare la santarellina”!
- Non ci trovo niente di romantico in questa frase, anzi!
- Ti sbagli! Lo sai quand’è stata la prima volta che mi hai chiamato Tuttelentiggini?
Sorrido.
- Hai sempre odiato quel soprannome!
- Come tu hai sempre odiato le mie lentiggini, giusto?
Sorrido di nuovo.
- Adoro le tue lentiggini …
- Adoro quel soprannome.
- Ok … dunque averti chiamato in quel modo ha scoperto un po’ le mie carte, ma non sarà stato solo questo!
- No di certo! Quando è andata via la luce e tu mi ha chiesto di darti la mano per raggiungere il camerino.
- Eravamo completamente al buio e tu mi hai detto che non vedevi niente …
- Lo so, ma quando hai preso la mia mano ho sentito come se tu non volessi lasciarla mai più! Non è stato così anche per te?
Sorrido e annuisco.
- E poi i tuoi baci hanno fatto il resto!
- Perché, com’erano i miei baci?
- Più o meno così, se non ricordo male …
Mi baci ancora e rimaniamo a letto non so per quanto tempo. Ci divertiamo ad immaginare come sarà nostro figlio, perché tu sei sicura che sarà un maschio.
- Ho paura quando penso che se non ci fosse stato lui forse tu non saresti qui.
- Io credo che sarei partita lo stesso, o comunque in qualche modo ti avrei cercato.
- Magari lo avrei fatto io!
- Lo sai cosa ho pensato quando ho saputo di essere incinta?
Aspetto che vada avanti, temendo un po’ ciò che dirà.
- Ho pensato che questo bambino è stato concepito durante un uragano. Un uragano è un evento senza dubbio catastrofico ma, se lo si guarda da un’altra prospettiva, ci si accorge che la sua furia porta via tutto ciò che non è abbastanza forte da resistere, tutto ciò che non è ben radicato. Il nostro amore ha resistito anche a questo e nella furia di quella notte è arrivato lui a ricordarci ciò che siamo.
*****
- Signor Dawson si ricorda la prima intervista che mi ha fatto?
- Certamente!
- E si ricorda per caso l’ultima cosa che mi ha chiesto?
- Se non sbaglio le ho chiesto se fosse mai stato innamorato.
- E io che cosa le ho risposto?
- Mi ha risposto di no e citando Shakespeare mi ha detto che era troppo saggio per essere anche innamorato!
- Lei non mi ha creduto vero?
- No!
- Ha fatto bene perché le ho mentito spudoratamente! Potrebbe farmi di nuovo quella domanda?
- Certamente. È mai stato innamorato Mr. Graham?
- Assolutamente sì! Una volta soltanto, di mia moglie! Lo scriva, la prego.
FINE
😍
RispondiElimina❤️
EliminaBravissima
RispondiElimina😘
EliminaGrazie mi fai sognare
RispondiEliminaGrazie a te, è un piacere anche per me far sognare 😊
Elimina❤️
RispondiElimina🥰
EliminaHo aspettato a leggerlo, volevo dedicargli il giusto tempo, Ele, è davvero un racconto meraviglioso! Complimenti! 💗 Aspetto con ansia i nuovi capitoli
RispondiEliminaGrazie 🥰
Elimina❤️❤️
RispondiElimina😘😘
EliminaBellissimo 💖💖💖 aspetto con ansia i prossimi capitoli
RispondiEliminaGrazie 🥰 mancano solo due capitoli ☺️😘
EliminaEle....Ele....avevi ragione quando dicevi che in questa FF Terence è diverso. Si. È irritante. Ma dimmi...dimmi....Candy è in dolce attesa ?
RispondiEliminaIrritante un po' lo è sempre stato però 😅😅 non posso anticipare nulla perché mancano solo due capitoli 😝
Elimina❤️
RispondiElimina😘
EliminaOh no è finita!!! Che peccato. Ne scrivi un'altra vero?
RispondiEliminaCi provo 🥰
EliminaChe finale meraviglioso 💖💖💖 complimenti davvero un bellissimo sogno ad occhi aperti
RispondiEliminaGrazie 🥰 🥰
EliminaEvviva
RispondiEliminaBooommmmm
😅😅
EliminaHermoso!!! Lleno de amor y mucha paciencia por parte de Candy 💜
RispondiEliminaLa pazienza di Candy deriva dal suo grande amore per Terence 🥰 grazie😘😘
EliminaEd anche questa fa schiattare il cuore... stupendaaaaa
RispondiEliminaGrazie ❤️
Annarita
Grazie 😘😘
EliminaMi piace il modo in cui scrivi... rapisci il cuore e l'anima
RispondiEliminaAnnarita
Ti ringrazio 🥰
EliminaAdoro com scrivi sai mettere ko il cuore ❤️!! Brava brava!!
RispondiEliminaGrazie 🥰😘
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